III- LA BIGIA E IL SUO PICCOLO

 

L’opera, come già anticipato, è stata pubblicata nel 1883, in “Arcadia della carità”, insieme a Passato!, per poi essere ospitata, nel 1885, sulla “Illustrazione milanese”, passando, infine, sulla catanese “Cronaca artistica”, nel 1890[11]

Essa si apre con una descrizione legata alla nascita del vitellino: “Le mucche, lungo le rastrelliere, si voltavano indietro, a fiutare quel tramestio che si era fatto attorno alla lettiera della Bigia” (p. 887).         

E’ il primo esempio del modo di procedere del narratore, che sembra raccontare senza preoccuparsi di chiarire fino in fondo le ragioni ultime di ciò che ricade, di volta in volta, nella sfera di osservazione, quasi non abbiano soverchia importanza. Egli mette a fuoco lentamente o privilegia l’indeterminatezza e la mera giustapposizione di elementi, nella descrizione di fatti e di sensazioni, legati ad animali e ad uomini.

In questo modo, così, l’attenzione cade sui quadrupedi e sull’evento che si sta verificando.

Ci troviamo, ex abrupto, all’interno di una stalla, dove sono poste al riparo delle mucche, disposte lungo le pareti, legate con catene vicino alle rastrelliere, dalle quali prendono l’erba o il fieno.

Esse sono colte nella loro istintiva reazione di fronte al confuso rumore che proviene dalla parte dove si trova la Bigia. Isolata rispetto alle altre, sarà essa, infatti, la protagonista del racconto, nel suo tragico rapporto con il vitellino.

Sta nascendo una nuova vita, questo è certo, e il rumore e la confusione che si hanno nella stalla, “attorno alla lettiera”, lasciano pensare che il narratore stia alludendo, oltre che alle sofferenze della mucca, che ha le doglie, alla presenza degli uomini, che vengono a controllare la situazione e vegliano sul parto della Bigia, stando vicino a lei, pronti ad aiutarla.   

In tal caso si spiega anche dal punto di vista logico l’assenza degli uomini, che all’inizio della novella non sono ancora a tal punto allarmati da disinteressarsi del prezioso bestiame e del particolare evento. La situazione si complicherà infatti solo dopo.

Stando così le cose, il narratore li pone del tutto in subordine, di fronte agli animali e alla Bigia.

Il ritmo è lento, con una grande densità descrittiva. Da notare che viene usato sempre lo stesso termine, mucche, dalle sfumature più nobili ed elevate, che viene preferito a vacche, e questa scelta appare legata soprattutto al registro linguistico utilizzato nel breve brano, con una prosa descrittiva che si apre a risonanze liriche.

In Nedda troviamo questa immagine: “…le vacche mostravano il muso nero attraverso il cancello che chiudeva la stalla, e guardavano la pioggia, che cadeva, con occhio malinconico” (p. 12). La giornata è grigia, cupa, e le lavoratrici come la protagonista perderanno una parte della propria misera paga; fatta eccezione per i maiali, tutto sembra partecipare di questa uggiosa atmosfera, e dunque anche i bovini (e i passeri, nel prosieguo della descrizione), che guardano dall’uscio alle nuvole cariche di acqua, oggetto di un processo di umanizzazione che li rende simili alle donne. 

La pioggia ritorna anche in Nella stalla, dove però le conseguenze del maltempo sono ben più gravi e le mucche sono al chiuso; le affinità tra le immagini però traspaiono ugualmente.

Le vacche caratterizzano anche linguisticamente la realtà siciliana e le ritroviamo pertanto pure in Jeli il pastore, dove il padre del protagonista, compare Menu, è per l’appunto un vaccaio. Questi conduce le sue bestie al pascolo nelle terre più adatte, ma infestate dalla malaria, pagando a caro prezzo la differenza che c’è tra uomini e vacche: queste, infatti, “non prendono le febbri” (p. 140), mentre compare Menu sarà colpito dalla terzana, accettando il suo destino con il tipico fatalismo degli umili della sua terra.

In un’altra novella, estravagante come quella di cui ci stiamo occupando, I dintorni di Milano, apparsa com’è noto nel 1881, in occasione dell’esposizione nazionale, Verga dedica uno squarcio alla mucca. Soffermandosi sul paesaggio lombardo, il Catanese apre un lungo periodo descrittivo, menzionando “La mucca che leva il muso grondante d’acqua” (p. 855); l’immagine di Nedda si è trasformata in quest’altra, più breve e meno significativa della prima.

Il passaggio da vacca a mucca possiede anche qui, come in Nella stalla, una sua giustificazione comprensibile, pensando alla destinazione riservata allo scritto.
     Va detto, in generale, che nel bestiario verghiano, pur ricchissimo di specie e di occorrenze, la mucca occupa, contrariamente alle apparenze, uno spazio decisamente limitato.

Nel Mastro-don Gesualdo ricordiamo la presenza della giovenca, che ricorre per due volte, sempre in riferimento ad Isabella che, in quanto giovane donna, è, in senso figurato, per l’appunto una giovenca, ambita e tentata (e il cugino, agli occhi di Gesualdo, assomiglia a chi “passa e ripassa in una fiera dinanzi alla giovenca che vuol comprare senza darle neppure un’occhiata”[12]), per poi diventare, una volta scoperto il suo fallo, come un capo malandato di bestiame, di cui liberarsi nel migliore dei modi possibili (“Bisogna mandare alla fiera la giovenca che si è rotte le corna, e chiudere gli occhi sul prezzo”[13]).

Al di là dell’uso figurato, però, nel secondo romanzo del ciclo dei vinti non andiamo oltre uno sporadico riferimento alla mucca Bianchetta (“Gnorsì, Pelorosso sta un po’ meglio; gli ho dato la gramigna per rinfrescarlo. La Bianchetta ora mi fa la svogliata anch’essa…”[14].   

La nostra analisi ci porta a concludere che la mucca come personaggio è in sostanza una presenza limitata a Nella stalla, a differenza del bue, che invece viene spesso descritto, anche se mai in ruoli di primo piano. Un esame delle occorrenze di quest’ultimo esula comunque dal nostro discorso e lo rinviamo ad un’altra eventuale sede.

La Bianchetta viene definita attraverso il colore del manto, che è candido, allo stesso modo della Bigia, che dà invece sul grigio.

Le altre mucche della stalla, come già anticipato, non sono caratterizzate, ma formano la coralità rispetto alla quale la Bigia si distingue.

Accanto all’indicazione del colore, essa spicca per l’accentuazione della sua maternità. L’animale ha infatti appena partorito un vitellino, e questo porta in primo piano le sue doti di amore e di sollecitudine, tipiche del resto dell’animale, che daranno ancor più profondità e credibilità alla sua disperazione finale.

La mucca è un simbolo di fecondità, perché facilmente concepisce, e di maternità, visto che assiste e difende il vitellino, che nei primi giorni deve essere lasciato vicino alla madre. Il suo periodo di gestazione, che è intorno ai 280 giorni, richiama quello della donna e da ogni parto nasce di regola un solo vitellino, il che lo rende quanto mai prezioso per la genitrice.

In Nella stalla il rapporto tra la madre e figlio è tutto basato sul legame affettivo e visto all’interno di questo nesso biologico, lasciando al di fuori ogni altra valutazione. La mucca ora avverte il bisogno di proteggere il suo piccolo e non pensa ad altro; con il tempo, poi, questo legame si affievolirà (a tal proposito, nella Storia dell’asino di S. Giuseppe, Verga scriverà, a proposito del protagonista a quattro zampe, appena venduto, e che dunque non tornerà più nella stalla accanto alla madre: “La sola che si rammentasse del puledro era la ciuca, che allungava il collo ragliando verso l’uscio della stalla; ma quando non ebbe più le poppe gonfie di latte, si scordò del puledro anch’essa”, p. 291), ma al momento le cose stanno in modo diverso, né la narrazione copre un lungo arco cronologico.

L’esclusione di ogni valutazione economica ci porta a cogliere la differenza tra la presenza del vitello in questa novella e nelle altre opere verghiane, in particolare nel romanzo I Malavoglia, dover si concentrano quasi tutte le occorrenze.

L’allevamento del piccolo quadrupede era abbastanza frequente in passato ed era giustificato dalla ricerca di un concreto guadagno, nella logica del rapporto utilitaristico che l’uomo instaurava con gli animali, evidenziato, per il mondo siciliano, dai vari Pitrè e Salomone Marino (quest’ultimo è categorico: “Nessuna classe sociale è sì affezionata, sì tenacemente legata agli animali domestici, come la contadinesca. Ma non si ama l’animale per l’animale, no: si ama per il tornaconto, per l’utile immediato e sicuro che se ne ricava. Animali che servano a dilettar solo i sensi, non se ne trova in casa dei contadini”[15])

In Jeli il pastore Mara riferisce al marito, quando ritorna dalla Salonia, della situazione, parlandogli anche “del vitello che allevavano” (p. 167).

Persino in un villaggio di pescatori lo scrittore immagina che ci sia posto per questa attività, che sale in primo piano nell’ultimo capitolo de I Malavoglia.

Mena rincuora l’accasciato padron ‘Ntoni e “gli diceva che avrebbero comprato un vitellino a San Sebastiano, ed ella bastava a procurargli l’erba e il mangime per l’inverno. A maggio si sarebbe venduto con guadagno”[16].

Quando Nunziata ricorda ad Alfio che presto venderanno il vitello, il carrettiere approva la decisione, temendo che l’animale possa morire (le malattie, in effetti, erano molto frequenti e provocavano gravi danni), portando via l’atteso ricavo, sul quale si fa affidamento per la rinascita dei Malavoglia.

Infine, quando la casa del nespolo ritorna ai legittimi proprietari, la stalla per il bovino svolge in pieno la sua funzione e al giovane ‘Ntoni, arrivato una sera improvvisamente ad Aci Trezza, Alessi mostra un vitello “grasso e lucente”[17], che è quasi un simbolo positivo, legato alla mutata sorte della famiglia.

Anche per i padroni della Bigia, sia ben chiaro, un vitello è soprattutto un capitale, tutt’altro che trascurabile, ma il prevalere di più impellenti preoccupazioni, legate alla personale sopravvivenza, farà sì che la Bigia non potrà contare sul loro aiuto, di fronte al dilagare della furia delle acque. 

Di qui l’originale luce in cui viene visto il piccolo bovino, a nuova conferma della particolare natura della novella estravagante.

Per l’argomento, vale la pena di ricordare un’altra grande opera in cui si descrive il rapporto tra mucca e neonato, ed è Il podere di Federigo Tozzi. Il ventiquattresimo capitolo del romanzo è imperniato sulla nascita di un vitellino, che la vacca comincia subito a leccare, ma questo “teneva gli occhi chiusi, aveva il muso quasi bianco; e non dava segni di vita”[18]. E’ nato morto, ma essa non si rassegna e cerca disperatamente di alzarlo in piedi. In seguito, Remigio ascolta i muggiti della mucca, che “gli facevano venire da piangere; e non poteva più guardarle gli occhi tanto afflitti che parevano più scuri e più fondi”[19].

Anche Tozzi, insomma, descrivendo le sventure del protagonista, che finirà ucciso, ha dato rilievo alla sensibilità, umana nel più alto senso del termine, di questo quadrupede.

 

IV- IN CERCA DI SALVEZZA

 

Se nella stalla descritta dal narratore è appena venuto al mondo un vitellino, si nota però anche una viva inquietudine da parte delle mucche, e questo perché esse, a somiglianza di altri animali, hanno la capacità di prevedere il maltempo.

Sono spaventate e il gesto di alzare il capo (“Di tanto in tanto le mucche inquiete levavano il capo, tutte in una volta”, p. 887) lo conferma, ricordando i proverbi del mondo contadino, secondo i quali quando la mucca alza la testa non tarda ad arrivare la tempesta.

Ora il brano ci presenta un crescendo di intensità. All’inizio, infatti, si dice, in modo neutro, che “La pioggia batteva contro le impannate” (ivi), ma il lettore è già in grado di comprendere che si tratta di una falsa quiete.

Si noti l’abilità con la quale il narratore descrive i movimenti delle mucche: “…e le bestie scuotevano le catene sonnolente: di quando in quando, nell’ombra che non arrivavan mai a dissipare le lanterne polverose si udiva il tonfo di quelle che si accovacciavano, ad una ad una nello strame alto, dei muggiti brevi e sommessi, un ruminare svogliato, il fruscio della paglia” (ivi). 

E’ buio, viene detto con chiarezza, ma non è una notte come le altre. Le mucche, legate ai propri posti, muovono le catene; spicca la posizione dell’aggettivo “sonnolente”, che va, com’è ovvio, riferito ai quadrupedi.

E’ una sensazione uditiva, quella evidenziata dal narratore, poi segue una visiva, rappresentata dalla sottolineatura del perdurare del buio, malgrado le lanterne; anzi, proprio il contrasto provvede ad accentuare l’oscurità dell’ambiente, poco rassicurante. 

La dislocazione dei termini “serve a scandire ritmicamente la descrizione”[20], come ha notato il Marchese, e il soggetto, le “lanterne polverose”, viene posposto al verbo.

In seguito, i rumori prendono decisamente il sopravvento, e la pagina si riempie di echi, di “tonfi”, tanto più netti nel silenzio e nel luogo chiuso, ma anche di più rapide e fioche sensazioni uditive, affidate a termini dalla valenza onomatopeica (“muggiti”, “ruminare”, “fruscio”).

Le parole sono sapientemente utilizzate e disposte, mentre il verbo, “si udiva” (ivi), lega le enumerazioni.

Il secondo capoverso ci fornisce studiatamente alcune informazioni in più, in ordine al “tramestio” iniziale: “La Bigia aveva ai piedi un vitellino, ancora tutto molle e lucente nella lettiera, e lo leccava e lo lisciava muggendo sotto voce” (ivi).                    

La mucca è colta nel suo gesto affettuoso verso il piccolo, e in quel “sotto voce” troviamo un’ulteriore nota di amorosa premura, quasi non volesse farlo spaventare (ma anche i suoni, con la vistosa presenza della laterale l, forniscono il loro contributo).

Non sfugga, però, subito dopo, la contrapposizione tra il fioco muggito del bovino, all’interno della stalla, e i forti ed inquietanti rumori che provengono dall’esterno.

Il “rombo che cresceva, dappertutto” (ivi), segnala il rapido peggioramento della situazione, nella furia delle acque che crescono velocemente di livello e degli elementi, e ad esso fa seguito il “gran trambusto” (ivi) degli uomini, che appaiono nella novella attraverso i loro passi, i loro gesti, le loro voci, ma non con i loro volti e i loro nomi. 

Non si sa chi siano, sono come delle ombre lontane nella notte, anche se si capisce, ovviamente, che sono loro che si prendono abitualmente cura degli animali della stalla, stando “nelle stanze superiori” (ivi).

A distanza di qualche tempo, rispetto alle inquiete mucche, gli uomini hanno compreso che sta avvenendo qualcosa di particolare, che si sta preparando un evento dalle tragiche conseguenze.

Il “gran trambusto” anche in altri passi verghiani segnala qualcosa di molto grave (si pensi, nel Mastro-don Gesualdo, alla morte di Bianca: ”…e nella camera della moribonda si udì un gran trambusto, seggiole rovesciate, donne che strillavano”[21]).

Vedremo in seguito che sia rombo che trambusto ritorneranno ad essere utilizzati nel prosieguo della novella.

Ora queste figure relegate in secondo piano, rispetto alla società degli animali, inquadrate in lontananza, si fanno non meno drammaticamente sentire, attraverso i rumori che producono.

Le persone si agitano per la casa, si muovono di qua e di là, senza avere le idee ben chiare. In quei “mobili che strascinavano sul pavimento” (p. 887) troviamo evidentemente un tentativo di rinforzare la casa, di renderla più forte di fronte all’arrivo dell’acqua. Il verbo allude a qualcosa di pesante, che non è facile spostare perché fa resistenza con il suo peso.

Si tratta comunque sempre di impressioni uditive, lasciate in parte indeterminate, che aumentano la suggestività del passo. Quello che conta è rendere le reazioni umane, che occupano un potente squarcio narrativo, prima di ritornare a parlare degli animali.

La scena si apre spazialmente, fino al cortile; poi il rumore si trasforma in colpi di schioppo e grida di donne. Le “schioppettate” (ivi) rappresentano un segnale d’allarme, rivolto dagli uomini a tutti quelli che si trovano nella zona, affinché non si facciano sorprendere, ma si alzino sollecitamente dal letto, se sono ancora immersi nel sonno.

Adesso è chiaro che la situazione è compromessa, che le acque stanno salendo di livello, mettendo a repentaglio la vita della gente, e il narratore evidenzia la diversa reazione delle donne, che piangono e si disperano.

Egli però è come sempre conciso e passa subito oltre, rimarcando il fatto che la paura si impadronisce di tutti, anche del gallo, che “in cima alla scala, saettava il capo, spaventato, chiocciando” (ivi). Il suo verso è insolito, per orario e per caratteristiche.

In Pentolaccia troviamo una gallina nera che, “appollaiata sulla scala, non finiva di chiocciare, come quando deve accadere una disgrazia” (p. 225). Il verbo chiocciare in effetti non viene mai riferito al gallo, nell’opera verghiana, bensì alla gallina o, in modo estensivo, a personaggi in carne ed ossa.

In senso proprio, si tratta del verso della gallina, nel periodo della cova o dell’allevamento dei pulcini; in Nella stalla è un suono anomalo, forte e stridulo, che rivela un animale terrorizzato, che non è da meno rispetto alle altre presenze dell’opera. L’effetto del verbo è dunque ricercato, e nello stesso tempo felice.

Quanto alla rappresentazione del cane, spesso l’autore ricorda il suo uggiolare, come in un passo di Quelli del colèra, che ha qualche affinità con il nostro, a partire dallo scenario notturno (“…e di tratto in tratto udivasi martellare la campana, alla quale rispondeva da lontano una schioppettata, poi un’altra, poi un’altra, una fucilata che non finiva più, pazza di terrore, e si propagava per le fattorie, pei casolari, per le ville, per tutta la campagna circostante, dove i cani uggiolavano, sino all’alba”, p. 592).

Anche nel passo di Nella stalla è notte e il cane chiude il capoverso con il suo guaito (possiamo menzionare anche i cani uggiolanti di Pane nero, resi anche in modo onomatopeico, nell’episodio finale, in cui si racconta la morta della madre di Lucia, che richiama, per il contenuto, la novella di cui ci stiamo occupando).

Il guaito lamentoso aggiunge un senso di profondità, ma anche di timore, alla scena notturna. Si tratta, evidentemente, del cane da guardia, che sta nel cortile, “Di fuori” (p. 887), e che in seguito ritornerà, in una nuova, brevissima frase, nella quale si ricorda che “non uggiolava più” (p. 888).

Ha smesso di farsi sentire e si è messo in fuga, verosimilmente con i padroni, o è stato sommerso e portato via dall’acqua? Non lo sappiamo, ma la sua assenza è di certo indice dell’ulteriore peggioramento della situazione. Il suo silenzio è pertanto più funesto del suo lugubre uggiolare.

Notiamo che il quadrupede si trova sempre in posizioni di rilievo: nella prima occorrenza chiude il capoverso, nella seconda lo apre.

Anche in questo caso, Verga conferma l’attenzione che ripone nella scelta dei termini, ma anche nella loro sapiente dislocazione ed iterazione.  

Se il gallo è “spaventato” (p. 887), le mucche non sono da meno: “Ad un tratto le bestie cominciarono a muggire tutte in una volta, fiutando verso l’uscio, cogli occhi spaventati, e tiravano forte le catene, come cercassero di strapparle” (ivi). 

Ritroviamo ancora sottolineato il comportamento coralmente istintivo delle mucche, che isola la Bigia e il suo vitellino. Alla fine del primo capoverso esse erano già apparse mentre levavano il capo “tutte in una volta” (ivi), e ora la reazione collettiva si ripete. 

Animali e uomini cercano allo stesso modo la fuga, e agli “usci” (ivi) delle case, spalancati dagli uomini, si collega l’”uscio” (ivi) della stalla, meta delle bestie atterrite.

L’istinto di sopravvivenza non ammette eccezioni e in quel tirare le catene da parte delle mucche c’è già la prefigurazione del loro liberarsi, dopo aver dato fondo a tutte le proprie forze, come verrà descritto in seguito.

A questo punto viene introdotta l’ultima novità zoologica, rappresentata dalle galline, oggetto di una breve descrizione: “Per tutta la corsia oscura corse un volo pesante e schiamazzante di galline” (ivi). Anch’esse, dunque, sono nella stalla e manifestano la loro paura; anch’esse cercano di uscire, ma sarà solo la forza delle possenti mucche che libererà un varco anche per loro. Così, poco dopo, vedremo i bipedi farsi strada tra le gambe delle mucche, sempre “schiamazzando” (ivi).

La gallina è una presenza costante, com’è facile comprendere, nelle opere verghiane, in un’ampia gamma di usi. Insieme al vitello comparirà, ad esempio, nella casa dei Malavoglia (“Ci avevano pure le galline nel pollaio, e il vitello nella stalla, e la legna e il mangime sotto la tettoia…”[12]), ma saprà anche diventare simbolo di una prosaica visione della vita, come nelle parole di Santo, in Pane nero (“Il guaio è che non siamo ricchi, per volerci sempre bene. Le galline quando non hanno nulla da beccare nella stia, si beccano fra di loro”, p. 316). 

Nella novella estravagante il rumore che i bipedi producono nella stalla sarà ben poca cosa rispetto al successivo “rombo” (p. 887), un’altra parola dagli effetti onomatopeici, ben più potente e terribile del primo, che segnala ormai l’arrivo delle acque della piena: “Immediatamente si udì il rombo vicino che scuoteva i muri, e sembrava montare verso le finestre” (pp. 887-88). La situazione si avvia alla catastrofe.

Poco dopo, per la terza volta nell’opera viene descritta la Bigia, e sempre in funzione del suo essere madre. Come le altre mucche, è spaventata, ma il narratore magistralmente e concisamente connota il suo comportamento, rimarcando il suo “muggito lungo e doloroso” (p. 888), nel quale traspaiono il dolore e la tenerezza materna, un verso ben differente dal semplice muggire delle altre compagne di stalla.

Inoltre, mentre le mucche fiutano “verso l’uscio” (p. 887), la Bigia “tornava a fiutare il vitellino” (p. 888), colto in una tipica posizione, “raccoccolato colle zampe sotto il ventre” (ivi). E’ un essere indifeso, quasi una vittima sacrificale, come nell’antica immagine classica.

Gli animali sperano nell’aiuto dei padroni, di coloro che ne hanno cura di solito, ma l’ultima descrizione degli uomini, indiretta come sempre, li mostra ancor più lontani, probabilmente mentre si stanno dando alla fuga, lasciando la loro casa: “Della gente correva pel cortile, delle voci affannate, delle grida” (ivi). E’ una rapida enumerazione, ricca di significato, in cui davanti al secondo e terzo membro va sottinteso un verbo uditivo, visto il costrutto ellittico.

Di certo, come si comprende leggendo la parte finale della novella, è il congedo definitivo degli uomini, che non sono più ricordati; essi sono stati costretti a lasciare in balia di se stessi i preziosi animali, e così sarà la furia dell’inondazione a schiudere la porta della stalla, producendo un allagamento.

Si noti l’efficacia di quell’aggettivo, “sporca” (ivi), che stravolge il valore positivo dell’acqua, simbolo di vita, dandole un senso diametralmente opposto. E’ un’acqua torbida, sporca di fango, trascinata fin lì dalla furia degli elementi, e dunque portatrice di morte e di rovina.  

Nel piccolo mondo degli animali si registra uno sconvolgimento assoluto: “Allora nella stalla successe un trambusto, un rovinio, tutta una fila di mucche avea strappata l’asse, alla quale erano legate, e scappava all’impazzata trascinandosela dietro, inciampando le une colle altre, mentre le galline fuggivano schiamazzando fra le loro gambe” (ivi).

Il termine “trambusto”, come già evidenziato, viene ora riferito agli animali, non agli uomini; si consideri anche la sillessi, o concordanza a senso (“tutta una fila di mucche…erano legate”), tipico procedimento verghiano che si rifà al linguaggio parlato. La furia dei bovini ha avuto la meglio.

Se lo sconvolgimento proviene dall’esterno verso l’interno della stalla, è solo seguendo il percorso inverso che gli animali possono sperare di trovare la salvezza. Nel luogo chiuso l’acqua sale più velocemente, e questo sarà fatale a chi, come il vitellino, essendo appena nato, non avrà la forza di lasciarlo e si trova evidentemente in un posto poco riparato.


 

[11] La Riccardi, nelle Note ai testi del suo Tutte le novelle, cit., a p. 1062, ricorda solo la prima edizione del testo, apparso sull’Arcadia della carità, Strenna internazionale A Beneficio degli Inondati, Lonigo, Tipo-litografia Editrice Luigi Pasini, che provvedere a pubblicare. Il Tellini, nell’opera da lui curata, Le novelle, Salerno, Roma, 1980, fornisce ulteriori dati, ricordando, nel tomo II, p. 502, la ripubblicazione, con lo stesso titolo, dell’opera nella “Illustrazione popolare” del 6 settembre 1885, inoltre aggiunge che a distanza di cinque anni la novella appare sulla rivista catanese “Cronaca artistica”, il 22 aprile 1890, con il titolo modificato in Inondazione, che viene dunque preferito a Nella stalla. Tellini si rifà anche al testo della rivista siciliana.

Dal confronto tra i due testi, quello del 1883 e quello del 1890, appare evidente che si tratta di un’unica redazione, che presenta infatti delle minime differenze, dovute più che altro ad errori di stampa. Ci sembra da escludere, dunque, che Verga lo abbia modificato, rivedendolo. Resta il problema del diverso titolo; va notato che su “Cronaca artistica” apparirà anche l’altra novella estravagante Un’altra inondazione, poco dopo, nell’agosto del 1890 (Tellini, cit., tomo II, p. 489). Il cambiamento del titolo potrebbe essere stato legato alla creazione di un nesso tra le due opere, riprese per l’occasione, con una scelta forse redazionale. Il tutto, comunque, sembra avvalorare il primo titolo, usato per due volte e più rispondente all’argomento.     

[12] G. VERGA, Mastro-don Gesualdo, ed. critica a cura di C. Riccardi, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, 1979, p. 271.

 

 

[13] Ivi, p. 347.

[14] Ivi, p. 82.

[15] S. SALOMONE MARINO, Costumi ed usanze dei contadini di Sicilia, Forni, Sala Bolognese, 1984, p. 308 (anastatica dall’edizione di Palermo del 1897).

[16] G. VERGA, I Malavoglia, a cura di C. Riccardi, Mondadori, Milano, 1983, p. 256.

[17] Ivi, p. 270.

[18] F. TOZZI, Il podere, Rizzoli, Milano, 1983, p. 206.

[19] Ivi, p. 207.

[20] G., VERGA, Novelle, a cura di A. Marchese, cit., p. 307.

[21] G. VERGA, Mastro-don Gesualdo, ed. critica a cura di C. Riccardi, cit., p. 406.

[22] G. VERGA, I Malavoglia, a cura di C. Riccardi, cit., p. 266.

 

 

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