V- IL TRAGICO EPILOGO

 

L’arrivo impetuoso degli animali nella corte viene fatto precedere da una descrizione che smorza la crescente tensione narrativa della novella, ma che poi, per contrasto, accentua la foga delle bestie che sopraggiungono, trascinando con sé la Bigia.

In questo periodo (“Nella corte, su di un palo, ardeva un fascio di legna secca, e illuminava tutto intorno l’acqua nera, che luccicava dove cadevano le scintille”, p. 888) spicca anche il tema dell’insensibilità della natura verso gli esseri viventi e il loro dolore, che sarà ripreso nel finale.

L’acqua, che ora è “nera”, si distende ovunque, mentre il luccichio e le scintille sembrano persino suggerire pensieri poetici, duramente negati dal contesto. Qualcuno aveva dato fuoco a della legna secca, per agevolarsi la fuga, ed ora essa è rimasta accesa nella corte, quasi a ricordare l’assenza degli uomini.

Il contrasto tra luce e ombra era stato già evidenziato all’interno della stalla, in apertura di novella, e nell’ultimo capoverso l’attenzione si sposterà ancora sulla lucerna.

Un passo simile, legato tematicamente all’inondazione, si legge ne La Barberina di Marcantonio, quando la piena provoca l’arresto della ruota del mulino: “Marcantonio prese il lume e scese per la botola. Laggiù l’acqua nera gorgogliava, e luccicava dove batteva il lume” (p. 903). In entrambe le novelle si tratta di una situazione molto delicata.

Con questo periodo, in ogni caso, il narratore si avvia a concludere l’opera estravagante, rendendola ancor più drammatica e significativa.

La tensione accumulata dalle bestie si scarica con un’irruzione violenta e fragorosa, “come una valanga” (p. 888), e i verbi enumerati dal narratore (“rompendo, scavalcando…sguazzando”, ivi) rendono vividamente la scena, con la loro cieca energia; la stessa Bigia si ritrova all’aperto con gli altri animali, ma l’assimilazione al gruppo è apparente e dura un attimo.

I suoi “lunghi muggiti” (ivi) in direzione delle finestre della cascina rappresentano altrettante disperate invocazioni d’aiuto, rivolte agli uomini, finiti chissà dove. Non sembra neanche una mucca, in questa descrizione, ma una donna che non sa cosa fare, che si aggira convulsamente e disperatamente per la corte, in cerca di aiuto per il suo piccolo. La Bigia ha la mente occupata dal pensiero del vitellino e il suo turbamento si manifesta esteriormente anche nel particolare della “coda ritta” (ivi).

Ora la scena inquadra solo lei, portando alle estreme e logiche conseguenze la narrazione. Il dramma più grande sta per consumarsi e rappresenta lo sviluppo fatale del rapporto tra madre e figlio.

Solo questo amore, istintivamente avvertito dalla Bigia, può giustificare e rendere credibile il comportamento della mucca, che alla fine, non avendo altra scelta, decide di ritornare indietro, da sola, nella stalla trasformata in una trappola per il vitellino.

     Il momento scelto dal narratore è il più tragico possibile, visto che rende la Bigia spettatrice inerme dell’affogamento, ma egli riesce anche ad evitare una caduta nel patetico, con una felicissima intuizione artistica.

La tragedia si consuma in due tempi. Nel primo, “Il vitellino era là coll’acqua al collo” (ivi), mentre “la madre tentava di spingerlo dolcemente verso l’uscio, scalpicciando in mezzo all’acqua” (ivi).

     L’avverbio assume uno straordinario risalto, come in altri passi l’aggettivo. Pur con il cuore straziato, pur in preda alla tensione, la Bigia è premurosa, ma i suoi tentativi di trascinare fuori il piccolo sono inutili. 

L’umanizzazione della mucca-madre è qui più che mai evidente: “Ad ogni momento levava il capo verso il soffitto come per chiamare aiuto” (ivi). Il senso del suo muovere la testa è reso dunque esplicito. 

    Il secondo e decisivo atto è rappresentato dall’arrivo di una nuova ondata, che sommerge il vitello, mentre sembrava che il peggio fosse passato.

Davvero straordinario è il modo in cui viene descritto il tutto: “Giunse un’altra ondata che gorgogliò al posto dove era il vitello, poi si agitò disperatamente e ribollì” (ivi). Il soggetto è l’”ondata”, che si incanala nella strettoia dove si trova evidentemente il vitellino (“gorgogliò”; il verbo si trova anche nel sopra citato passo tratto da La Barberina di Marcantonio), poi investe la vittima, che si dibatte in tutti i modi, con le sue povere forze, ma non riesce a resistere.

Dal punto di vista grammaticale, l’avverbio “disperatamente” si riferisce all’acqua, non all’animale, anche se da un punto di vista logico è il contrario. Siamo di fronte ad un’ipallage, come ha sottolineato nella sua lettura anche il Marchese, che in modo del tutto convincente ha parlato di “Un’ipallage magistrale, che testimonia l’originalità espressiva della prosa verghiana”[23].        

Ancora una volta l’avverbio diventa protagonista in senso positivo.

In poche parole troviamo condensata la breve resistenza del piccolo, che davanti agli occhi della madre si dibatte, smuovendo l’acqua, respira a fatica, mezzo sommerso (“ribollì”, ivi), infine affoga. Il narratore però non sceglie di porre in primo piano le reazioni dirette del vitellino, bensì il moto delle acque. E la fine della tragedia è segnata dalla visione esterna dell’”onda”.

L’agitazione lascia spazio ad una calma di morte, in una visione sostenuta da due aggettivi (“quieta ed immobile”, ivi) e da un avverbio (“dappertutto”, ivi), e la stasi diventa simbolo dell’indifferenza del mondo, delle cose, verso il dolore dei singoli esseri umani.

La lanterna è rimasta al suo posto, illuminando senza pietà l’accaduto, imperturbabile. Sotto quell’”acqua” pochi istanti prima c’era un vitellino, un animale da poco venuto alla luce, giusto il tempo di morire, mentre ora non c’è più nulla di lui, come se non fosse mai esistito.

Dopo aver sottolineato il contrasto, il narratore può chiudere questa pagina con la descrizione diretta del dolore della mucca: “Allora la Bigia scappò muggendo al vento, colla coda ritta, l’occhio pazzo di terrore; e si perse nell’oscurità profonda” (ivi).

I suoi muggiti erano prima rivolti al vitellino, poi agli uomini, ora solo “al vento” (ivi), senza un perché, e anche la “coda ritta” (ivi) rivela un’agitazione sterile, frutto di un senso di terrore, di dolorosa pazzia, che spinge l’animale a vagare nelle tenebre.

In quell’oscurità, fortemente connotata dall’aggettivo “profonda” (ivi), troviamo un chiaro simbolo del buio fitto sceso nella mente e nel cuore della protagonista, spettatrice inerme e consapevole di quanto avvenuto.

Isolata nell’ambito della sua mandria sin dall’inizio, la Bigia esce di scena solitaria, con un assoluto risalto, che testimonia della volontà dello scrittore di renderla protagonista della novella. Certo, in Nella stalla non si racconta la sua storia, come avviene nell’opera delle Rusticane (quanto al vitellino la sua storia non ha nemmeno il tempo di iniziare) e ci sono anche altri personaggi, ma nessuno come lei domina la scena, né di alcun altro viene così in profondità illuminato il destino di sofferenza. 

Le conseguenze dell’inondazione riguardano tutti, ma la Bigia è senza dubbio la più colpita nei suoi affetti, e poco conta che si tratti di una mucca.

In molti aspetti diversa dalla Storia dell’asino di S. Giuseppe, com’è facile comprendere, Nella stalla, però, portando magistralmente in primo piano il mondo degli animali, costituisce un’altra prova delle straordinarie capacità introspettive e descrittive del Verga, del suo desiderio di penetrare nell’animo di ogni essere vivente, uomo o bestia che sia, per scorgerne il destino di dolore e di sofferenza. L’arte è ricerca del vero e l’autore è un implacabile esecutore di questo imperativo, al quale resta fedele.

Se la condanna è unica e riguarda indifferentemente chiunque si affacci alla soglia dell’esistenza (e proprio per un animale, l’asino grigio, il filosofo Malpelo ripete a modo suo, davanti al povero Ranocchio, l’antico optimum non nasci), non meraviglia che anche le bestie possano diventare protagoniste di una novella.

L’asino di San Giuseppe, buono e forte, viene discriminato e sfruttato da tutti, per mero tornaconto personale, prima di poter godere il sonno del non essere; la mucca Bigia, altrettanto positivamente vista nel suo amore di madre, tanto più vivo quanto più recente era la nascita del vitellino, si perde nel buio della notte, terrorizzata.

E’ un quadro della via crucis, lunga o breve che sia, che attende anche gli animali, una verità consegnata nel migliore dei modi alle due pagine che formano la novella Nella stalla.

Per questo motivo, l’opera, benché estravagante, merita a nostro parere un’attenta considerazione, perché tutti i motivi e tutte le peculiarità vengano con cura sviscerati ed apprezzati.

 


 

[23] G. VERGA, Novelle, a cura di A. Marchese, cit., p. 308.

   

   

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