A CURA DI FRANCESCO GIULIANI
“LA POVERA VITA", SILLOGE NOVELLISTICA DI ALFREDO PETRUCCI
Di Alfredo Petrucci è difficile dire sinteticamente chi fosse e cosa facesse. E’ forse il caso di ricorrere ad un altro grande garganico, Pasquale Soccio, che così lo descrive: “Versatile ingegno fu Alfredo Petrucci: incisore e storico dell’incisione, critico e storico, poeta e narratore. Egli affidò la sua ‘parola’ meglio al bulino o alla penna? Alla riflessione critica o all’immaginazione? Al giudizio storico o alla musica del verso? Non è buona critica appuntare l’indice verso un mezzo espressivo usato da Petrucci a detrimento dell’altro. E’ certo che la sua personalità aveva bisogno di tutti questi mezzi per esprimersi validamente e compiutamente”.
Di lui, "giovane artista", scrive Michelangelo De Grazia nel 1930: "... simile a certe nature geniali del Rinascimento, ci appare come l'essenza stessa dell'arte, uno e molteplice, pronto a chiudere, nel cerchio breve di un sonetto o nel rettangolo rutilante d'un'acquaforte, i fantasmi che gli balenano nella mente". Poco oltre ribadirà e approfondirà questo giudizio: "... poeta e disegnatore al tempo stesso, conoscitore di vecchie carte e agitatore di problemi sempre nuovi". In queste parole c'è anche il riferimento all'incarico ricoperto da Alfredo Petrucci di direttore del Gabinetto Nazionale delle Stampe di Roma, dove si era trasferito nel 1922, dopo che, laureatosi a Napoli in Lettere e Filosofia, aveva intrapreso la carriera delle Antichità e Belle Arti, che lo aveva portato ad Ancona, a Siena, a Bari e quindi a Roma.
Né, d’altro canto, è facile sintetizzare l’azione e l’opera di Francesco Giuliani. Italianista, originario di San Severo, Giuliani non è la prima volta che si interessa del Gargano e di Rodi in particolare.
Sempre in questa collana delle “Edizioni del Rosone”, nata dalla sensibilità di Benito Mundi e dal suo magistero, prima come direttore della Biblioteca Comunale di San Severo, ora come presidente della Fondazione "Angelo e Pasquale Soccio", alimentata dalle competenze, tra gli altri, di Francesco Giuliani, nel giro di pochi anni essa ha recuperato e restituito testi preziosi, che costituiscono le nostre radici.
Per limitarci solo ad alcuni titoli, nel 2004 sono state pubblicate le “Occasioni letterarie pugliesi”, a cura di Francesco Giuliani, in cui trova spazio, tra gli altri, Bacchelli con il riferimento agli ex voto del convento di San Matteo, da cui scaturisce il racconto “Agnus Dei”, e a un ex voto del Santuario della Madonna della Libera di Rodi, da cui viene fuori il racconto “Le arancie dell’«Unità Italiana», che narra delle vicende occorse alla imbarcazione a due alberi di Nicola Cassieri, salvatasi miracolosamente da un naufragio con tutto il suo carico di agrumi e restituita al proprietario.
Nel 2005 Francesco Giuliani cura, sempre nella collana "Testimonianze", la pubblicazione de “Il Gargano” di Antonio Beltramelli: un forlivese che ai primi del secolo scorso attraversa il nostro promontorio e ne descrive i pregi e i difetti che man mano coglie, da giornalista attento e curioso.
Ma la collana “Testimonianze” non si ferma qui, ci sono altri titoli che non cito per brevità. Come non si ferma qui l'attività di Francesco Giuliani, di cui va anche ricordato "Il piano infuocato e lo sconosciuto Gargano" - La Capitanata nelle "Visioni Italiche" di Giulio Ferrari, pubblicato nel 2006, per i tipi di Felice Miranda di San Severo.
Ai titoli sopra riportati, quest’anno se ne aggiunge un altro, “La povera vita” di Alfredo Petrucci. Un garganico di grande importanza e spessore, che, come abbiamo appena detto, prima per motivi di studio, poi per lavoro, vive lontano dalla sua patria. Ma che proprio per questo avverte ancor più prepotente la nostalgia della sua terra, in un tutt’uno con la nostalgia della madre persa prematuramente e “sepolta fra la montagna e il mare/ del Gargano/ nel paese ove nacquero/ queste novelle”, come Petrucci scrive nella dedica. Le novelle che nel 1914 egli pubblica con il titolo “La povera vita”, tanto semplice, quanto schietto e autentico, come la sua stessa narrazione. Scrive di questo libro Michelangelo De Grazia: "... una raccolta di novelle, in cui, con potenza fantastica, vien descritta la vita che su per giù tutti viviamo: qui la gioia perseguitata dal dolore, là il dolore perseguitato dalla stessa sua smorfia".
In quest’opera il Gargano non è più lo sfondo e il motivo ispiratore di storie affascinanti e strane, perché fuori dal comune. Il Gargano diventa il protagonista di questa raccolta.
Non abbiamo riferimenti geografici precisi circa le ambientazioni (o location, per dirla con un termine à la page), ma, per esempio, nella novella “Munda cor meum” vi appaiono all’orizzonte il bosco dell’Isola, che divide il mare dal lago di Lesina, e le Isole Tremiti “chiazzate di cadmio”.
La Madonna di Costantinopoli è citata nella novella “Don Presbiterio”. Carpino è citato come luogo di esibizione della banda diretta dal maestro Matteo Fischietti nella novella “Il corno”.
Ma poco importano questi riferimenti precisi. Ben più interessanti sono quelli relativi alle atmosfere e alla mentalità, agli scorci caratteristici.
Paesaggi e atmosfere che l’Autore si era portato nell’animo, come emerge dalla descrizione contenuta nella novella “Una missione”: “Le donne del vicolo prendevano sugli usci il solicello. Ai loro piedi razzolavano le galline. Qualche pozzanghera luccicava come lamina d’argento. Ai balconi verdeggiavano i vasi e le piante rampicanti. Correvano, tra le finestre, i lunghi filari dei panni posti ad asciugare. Un gallo, movendosi irrequieto, faceva giocare la nota sanguigna della sua cresta sull’antro buio di una stalla”. A questa possiamo aggiungere la descrizione contenuta nella novella “Il senato”: “Entravano –si sta parlando della Farmacia di don Vincenzo- le donne e portavano odor di bestiame e di cucina. Entravano con un lattante al petto ed un moccioso alle costole… Entravano con la ricetta e il bicchiere nel pugno e si assiepavano innanzi al bancone, aspettando il turno”. O ancora quella che troviamo nella novella “Il compagno”: “La mattina si vedono i lavoratori disoccupati fermi in mezzo alle strade, avvolti nei loro ferraioli, senza parlare, scrutando il cielo; la sera, uomini e donne, vergognosi di stender la mano di giorno, vi attendono all’angolo di una strada o accanto al vostro portone, col volto nascosto, per chiedervi il prestito anonimo di una lira. I bimbi stessi sono più tristi: le stigmate della sofferenza s’imprimono loro sul viso; non stanno più a giocare sul sacrato, ma vanno in campagna a raccogliere il fascio degli sterpi, sotto la neve o fra le colonne della nebbia”.
La prima descrizione ci ripropone scorci ancora attuali. Le altre due evidenziano la profonda atavica miseria che attanagliava le nostre genti. Da tutte traspare la capacità del Petrucci, geniale acquafortista, di riuscire a cogliere con pochi ed essenziali tratti, immagini che esprimono tutto un mondo che l’Autore conosce bene. Un mondo che, anche se visto da lontano, non contiene nessun elemento di idealizzazione; nello stesso tempo, in quelle immagini c’è tutta la comprensione di chi, pur se con un diverso destino, che lo ha portato lontano dalla sua patria, ne condivide la sorte. In quelle immagini c’è un patos profondo, un sentimento altissimo e nobilissimo, non più la curiosità giornalistica che lo scorso anno abbiamo potuto leggere nelle pagine del Beltramelli, che avevano un’ottica di lettura esterna alla nostra realtà.
Qui l’ottica di lettura è tutta interna alla realtà stessa, è un’ottica di partecipazione commossa di fronte a un’umanità sofferente, di cui la realtà garganica diventa la metafora.
Una umanità in cui trovano posto, com’è naturale, tutte le sue più diverse categorie: dai “galantuomini”, ai preti, ai popolani, dai ceti più abbienti, a quelli più diseredati, accomunati da un unico destino.
Ecco perché il Gargano è sullo sfondo con quelle scarne ma pur sempre vivide immagini, perché, come, d’altra parte, si desume dal titolo stesso, “La povera vita”, più che il Gargano in sé, al centro dell’attenzione è la vita stessa, ma per Alfredo Petrucci la vita è qui, dove egli ha mosso i suoi primi passi, dove è sepolta la madre, come recita eloquentemente nella già citata dedica dell’opera appunto a sua madre.
E’ appena il caso di sottolineare che con Rodi Alfredo Petrucci aveva un rapporto privilegiato: la mamma era una De Grazia (Gerolamina De Grazia) e la moglie una Ruggiero (Nilla Ruggiero), entrambe di Rodi.
E a Rodi è dedicata una delle liriche di “Tre paesi tre canti” che coglie la nostra cittadina “alta su la salmastra rupe/ tender l’orecchio ai colli” e che, con versi che risentono del Carducci e del D’Annunzio, continua a cantare la nostra terra, le acque della “sorgenza”, “il sinuoso fianco del monte Talèro”.
A Rodi, come ricorda anche Giuliani, ad Alfredo Petrucci è stata dedicata una piazza, grazie alle sollecitazioni di Pasquale Soccio, all’interessamento di Filippo Fiorentino e alla sensibilità dell’Amministrazione Comunale del tempo, nella persona di Teodoro Moretti.
A Rodi, sempre per interessamento di Filippo Fiorentino, è stata ospitata presso l’Istituto Tecnico “Mauro Del Giudice” la mostra documentaria “Alfredo Petrucci e il suo Gargano” dal 20 al 26 maggio 1995, l’ultimo anno di Dirigenza a Rodi da parte di Fiorentino, quasi un monito lanciato verso un futuro di crescita umana e culturale.
L’opera, pubblicata nel 1914, risente, come dice anche Giuliani nel suo ampio, attento saggio critico introduttivo, degli influssi verghiani e dannunziani. Ma non più di tanto. Forse è opportuno ricordare anche per la prosa quanto Soccio ha detto per la poesia del Nostro nel convegno del 1988 a San Nicandro in occasione del centenario della nascita di Alfredo Petrucci. Si può parlare anche qui “di motivazioni di contenuti e non derivazioni formali sia per stile o per mode o modi espressivi”, perché poi personale e originale è lo sviluppo della sua narrativa, così come anche quello della sua poesia.
Se di Verga ha assimilato la lezione poetica verista, ben diverso da quello di Verga è il suo stile e il suo modo di esprimersi, che non concedono nulla, o ben poco, al dialetto, né in quanto a lessico, né in quanto a struttura sintattica (ricordiamo il termine lopa in "Il nemico). Come d’altra parte ben poco concede allo stile ridondante ed estuoso di D’Annunzio.
La sua lingua è “diretta ma curata”, come dice Giuliani nel saggio introduttivo, il suo è “un linguaggio senza fronzoli, che privilegia una narrazione lineare”, che “non affonda il coltello nell’interiorità, non si perde nel groviglio dell’animo umano, nella descrizione del patologico”, ma non per questo le sue novelle sono da tacciare di superficialità, perché “lo scrittore sa far vibrare anche le corde più delicate, mostrando l’anima di questi personaggi, … evitando sia gli eccessi di una rappresentazione troppo realistica che quelli di una visione bozzettistica o manierata”.
E questo trova riscontro anche nelle schermaglie polemiche con chi a quella visione improntava la propria opera, come il francese Roger Vailland, autore de “La loi”. Schermaglie polemiche contenute in Pernix Apulia, apparso postumo nel 1971.
"Il titolo dell’opera, 'La povera vita', disarmante nella sua semplicità, svela apertamente il suo rifiuto di una narrazione che punta sulle tinte vistose, sul folcloristico, sul bozzettistico. Petrucci non cerca il colore in sé, per attirare l’attenzione, né ama l’enfasi sentimentale, ma vuole offrire una visione quanto più possibile completa e veritiera di questo microcosmo, popolato di gente che affronta il suo destino, di volta in volta, con tenacia, con un coraggio che sfocia nell’ostinazione, con una rassegnazione che sa essere sublime e commovente, con un istintivo abbandono alla natura, con un’ammirevole dedizione. E’ una vita in cui compaiono spesso la sofferenza, la malattia, la sconfitta, anche se non mancano i momenti di gioia e di illusione; di certo, nel complesso la bilancia pende vistosamente dalla parte del dolore e anche nelle novelle in cui sono più presenti i toni comici si notano i risvolti amari”.
Ho voluto riportare questa lunga citazione dal saggio di Giuliani, perché mi sembra nodale e importante per la comprensione di tutta l’opera.
Questo è il quadro, infatti, in cui si inserisce la galleria di personaggi che Alfredo Petrucci riesce a sciorinare sotto i nostri occhi, a partire dai “senatores” che, dall’alto della loro veneranda età, si ritrovavano presso la farmacia di don Vincenzo, “… fantastico sinedrio di figure bianche e sonnolenti, con le labbra serrate sotto il biancore immacolato dei baffi”. Metafora di un disfacimento fisico, ma anche umano e sociale, come testimonia l’infelice battuta finale del calzolaio Stambura, mentre i tocchi di una campana a morto annunciavano il trapasso di don Vincenzo.
La novella “Un fratello” sembra tracci l’immagine di chi vuole reagire al corso della vita, ma lo scontro con “un fato avverso” costringe Mimì Tombola a soccombere, concedendosi l’unica magra consolazione di aver contribuito con i suoi articoli a far trasferire chi avrebbe voluto, dopo averlo accolto ed esaltato dalle colonne del suo giornale, dare in sposo a una delle sue quattro sorelle nubili.
In “Munda cor meum” torna ancora protagonista un destino di morte, che non risparmia nessuno, neppure don Paolo, prete e ultimo membro di una famiglia decimata dal “mal sottile”. Un destino cupo e triste, che diventa ancora più tetro in rapporto a quel paesaggio garganico dell’Isola posta tra il lago di Lesina e il mare, delle isole Tremiti, dei lontani monti dell’Abruzzo, su cui le finestre della casa di don Paolo si erano appena aperte, ma per richiudersi ben presto definitivamente.
Ironica la novella “Il tempo”. In essa, ancora una volta, una realtà caratterizzata dalla precarietà, alla ricerca di certezze, si rivolge a chi con i suoi malanni fisici può preannunciare una pioggia che tarda a cadere. Le previsioni sono giuste, ma…con un imprevisto, che verrà fatto pagare ai poveri malcapitati, che, oltre ai loro mali fisici, devono sopportare le offese e le aggressioni di chi li ritiene responsabili dei danni procurati dal maltempo.
“La nostalgia dell’amore” ha il suo punto di forza nel contrasto tra le parole di Baudelaire nell’"Orologio”: “I minuti, spensierato mortale, sono sabbia che non bisogna lasciare senza estrarne l’oro” e la vicenda narrata. Giulio Santelli relega la sua vita tra i libri e, quando gli capita di scoprire l’amore, non sa coglierlo all’istante. Quando le illusioni svaniscono, a Giulio resterà un’amarezza tale da rendergli ancora più triste tornare alla vita di prima.
In “Don Presbiterio” il protagonista cerca di liberarsi di questo nome che gli crea imbarazzo e quando sembra esserci riuscito, il nome ritorna prepotente. Un destino simile al fu Mattia Pascal pirandelliano.
“Il canto di Sabella” e “Una cometa” sono attraversate da una diversa sensualità: più aperta e sfacciata nella prima, in cui Sabella con il suo canto di novella sirena cerca di ammaliare il sacerdote don Luigi, fino a strappargli l’agognato bacio. Più nascosta e ammiccante nella seconda, in cui Edoardo Vecchini, amanuense nel Museo della città, accompagna donna Violetta nella visita delle varie sezioni del Museo, per soffermarsi in un sottile raffronto tra un gruppo di statuette simboliche e la donna che le era accanto. “Cessò di associarle agli schemi meccanici dei suoi registri, le sviluppò dalla materia in cui erano irrigidite, dette loro un senso ed una vita e cominciò a descriverle con nuove parole. Accennando ai seni della statuetta portò involontariamente lo sguardo sul petto della forestiera, menzionando il melograno la fissò nel volto e restò a contemplarne la bocca rossa. Che cosa avveniva negli abissi del suo spirito?”.
Una passione che Edoardo Vecchini non troverà mai il coraggio di confessare e quando si deciderà, il sopraggiungere degli eventi porterà lontano la “cometa” di donna Violetta, rigettando Edoardo nel suo monotono lavoro di amanuense a cui era giunto dopo un giovanile periodo di sbandamento. L’atmosfera sensuale attraversa tutta la novella, fin dalle prime battute, quando tra gli oggetti da registrare vi appare un “guttario globale con beccuccio fallico…” e si conclude con una “Corniola incisa con cavalla in amore”.
Nella novella “Il nemico” il protagonista, come spesso accade nella nostra povera realtà, e ancor più accadeva in passato, è un elemento naturale, il mare. Pensate a quanti ex voto di soggetto marinaro sono presenti nel Santuario della Madonna della Libera a Rodi; pensate al miracolo dell’Unità Italiana citato all’inizio e ripreso da Bacchelli. Il mare, che qui strappa la giovane vita del figlio di Nicola Papa. L’odio di Papa e la sua ripulsione, che lo portano a cambiare persino attività, cadranno di fronte alla necessità di “riconciliarsi” con il mare per recuperare il corpo del figlio.
In “Una missione” e in “Avventura sentimentale” ritorna la presenza femminile, dolce e delicata nella prima, sfrontata e deludente nella seconda.
“Il compagno” introduce il tema politico, ma in modo del tutto personale, con una fine ironia.
Francesco Croce, figlio di don Michelino il farmacista, scrive sulla rivista “Critica Sociale”, attirandosi le critiche dei “galantuomini” e per converso le simpatie del ciabattino Simmaco, che si strugge nel desiderio di potersi scambiare il saluto con il figlio di don Michelino accompagnato dall’appellativo di “compagno”, che andasse a sostituire altri arcaici e feudali appellativi. Ma “Francesco viveva piuttosto nelle nuvole” e Simmaco per esigenze di famiglia è costretto a passare al partito dei conservatori. Si consuma così un progetto politico di grandi ideali che stentano a calarsi nella realtà, in cui nel frattempo incomincia a farsi strada una logica utilitaristica, sia pure dettata da necessità, come in questo caso. Ed è quasi una beffa per quel diritto al voto universale maschile che l’Italia aveva appena conquistato nel 1912, due anni prima della pubblicazione dell’opera.
Nella novella "Il corno", le belle speranze di Matteo Fischietti di una brillante carriera di musicista, si scontrano con la realtà che lo vede impegnato a dirigere la banda cittadina, in cui è costretto anche a sostituire il suonatore di corno, e con cui è invitato a suonare alla "fiera della Concetta" a Carpino, tra l'entusiasmo soprattutto del padre, un entusiasmo sproporzionato in rapporto alle attese.
La novella che chiude la silloge, "La casa delle vergini", è veramente bella e importante ai fini della comprensione di tutta l'opera. Posta così alla fine, questa novella narra di sette sorelle che scoprono, così come gli abituali frequentatori della farmacia di don Vincenzo nella novella "Il senato", che apre la silloge, di stare invecchiando, per giunta con il rammarico di non aver scoperto l'amore, quell'amore che in tutta la silloge è sempre presente, desiderato, cercato, mai appagato. Ma in questa novella al disfacimento, già presente nella novella iniziale, si contrappone un filo di speranza. Rosalba, che non può vivere personalmente l'esperienza d'amore, quando scopre che la sorella Marinella è innamorata, dopo la curiosità e l'incertezza iniziali, trova il modo di dare un senso alla sua vita, sia pure tra le lacrime che sono di nostalgia ma anche di gioia, nel togliere dal corredo il suo nome per ricamare quello della sorella.
Pur nella tristezza, si apre una speranza nel mondo moderno. Un mondo moderno in cui il più delle volte i personaggi del Petrucci sembrano muoversi con difficoltà. Sicché a Verga e a D'Annunzio o al Pirandello, citato a proposito di "Don Presbiterio" da Giuliani, io aggiungerei anche Svevo.
Tanti dei personaggi che scorrono sotto i nostri occhi hanno più di una affinità con gli inetti di Svevo. "La coscienza di Zeno" è del '23, posteriore all'opera del Nostro, ma la figura dell'inetto è già ben delineata in "Una vita" del 1892 e in "Senilità" del 1898.
La capacità o, meglio, l'incapacità da parte di questi personaggi di aderire alla vita, diventa la chiave di volta di tante novelle, che in modo originale Petrucci ci propone e questo alle soglie del Novecento, che vedrà il travaglio dell'uomo, di cui quest'opera è una forte metafora.
La novella "Il senato", con cui si apre la raccolta, non è una metafora, come abbiamo già detto, di un mondo senescente, in decadenza?
Giulio Santelli di "Nostalgia dell'amore" e Edoardo Vecchini di "Una cometa", sono affini ad Alfonso Nitti di "Una vita" e ad Emilio Brentani di "Senilità".
Lo stesso concetto di senilità ritorna in "Don Presbiterio: "nomina sunt consequentia rerum".
Non voglio continuare a cercare delle affinità. Non è questo il mio intento, quanto piuttosto quello di sottolineare come Petrucci abbia respirato a pieni polmoni quell'atmosfera letteraria e culturale tra fine Ottocento e primo Novecento, cosa che è accaduta anche per la sua poesia, come Pasquale Soccio ha ampiamente dimostrato nel suo intervento citato all'inizio, riconoscendo, però, come già per la poesia, in quei richiami "motivazioni di contenuti" e non "derivazioni formali", restituendo così ad Alfredo Petrucci la sua originale posizione.
Questo forse è ancora più vero per la sua prosa, che conserva una freschezza e un'attualità sorprendente, che rendono godibilissimo il libro, oltre che contribuire a farci piacevolmente scoprire le nostre radici, che è l'obiettivo per cui è sorta la collana "Testimonianze".
PIETRO SAGGESE
Pubblicato sul periodo "Il Gargano Nuovo", settembre-ottobre 2007, pp. 4-5.