CAPITOLO SECONDO
"IL CONSERVATORE"
I- IL VINCITORE GAETANO
Il cammino di Casiglio come romanziere si apre nel 1972 con un libro difficile come Il conservatore, un lavoro denso, per quanto non ponderoso, che presuppone un'attenta lettura, per riuscirne a penetrare i suoi significati meno appariscenti, ma che incuriosisce chi vuole coniugare la vicenda con le idee, chi ama il romanzo che sia anche saggio.
Il libro trova una calda accoglienza a livello nazionale, grazie anche alla presentazione di Geno Pampaloni che, includendo il testo nella collana Narratori della "Vallecchi", lo congeda con parole entusiastiche, che colgono alcuni punti importanti e pongono l'accento, in conclusione, sull'ambiguità del protagonista, sul suo prestarsi a varie interpretazioni e a diversi apporti personali del lettore.
In effetti, Gaetano Specchia è un personaggio tanto particolare e significativo da costringere l'interlocutore ad interrogarsi, a mettersi a nudo, rivelando le proprie certezze e le proprie simpatie.
In questo, il mite professore universitario è realmente un segno di contraddizione, un uomo scomodo che rientra a pieno titolo nella categoria delle esperienze anomale, ben più ampia di quanto si possa a prima vista pensare, rimosse da un'umanità superficiale e legata al mito del successo; tocca non a caso ad uno scrittore altrettanto irregolare e periferico, come Nino Casiglio, illuminare l'altro lato della medaglia.
Dall'avvertimento di un vuoto, di una lacuna intollerabile, muove lo scrittore dauno, giunto ormai negli anni della sua maturità, tuffandosi e tuffandoci in una narrazione di grande originalità, che rende poco produttivi anche certi nessi critici, come quello con Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa; è un libro che ha un suo teatro geografico, il Meridione d'Italia, un suo tempo, poco più di un cinquantennio, quello che va dalla fine dell'Ottocento al 1948, ma che supera agevolmente le coordinate di tempo e luogo per raggiungere un suo più alto respiro, una sua più piena significatività.
Un'opera aperta, elastica e calibrata per reggere una molteplicità di accezioni, ma che ha, ovviamente, un senso principe, quello a cui pensava Casiglio nel momento in cui ne stendeva le pagine, e che è d'uopo focalizzare, per poi passare all'esame diretto del testo.
La prima, voluta provocazione è quella del titolo, che mantiene anche oggi un suo valore, ma che suona tanto più forte se solo ripensiamo agli anni in cui il romanzo viene composto e pubblicato, ossia a cavallo del Sessantotto; si tratta di una fase in cui le etichette, le definizioni esteriori, di qualsiasi genere, sembrano cancellare l'uomo e le sue azioni, in cui l'ideologia annienta la verità in favore di una sorta di giustificazione per fede, come amava ripetere lo scrittore, riproponendo, esasperati, vecchi schemi, vecchie consuetudini, che attraversano le varie epoche descritte da Casiglio.
In questo quadro, un uomo come Gaetano Specchia appare più che mai un retrivo conservatore, uno sconfitto gretto e pieno di scrupoli, incapace di agire, e per questo tagliato fuori dalla società; ma in questa definizione c'è soprattutto una valutazione esteriore.
La questione, invece, è molto più complessa e passa per un interrogativo inquietante: chi è il vero vincitore? Su quale base si può distinguerlo dal vinto?
Se si valuta l'esistenza servendosi del criterio del successo, del denaro, della conquista del potere e degli allori di qualsiasi genere, ebbene Gaetano è sicuramente un perdente, un uomo da condannare senza appello; ma se si capovolge il metro, seguendo lo scrittore, pensando che il vincitore è chi cerca la fedeltà a se stesso nel bene, la questione cambia aspetto e Gaetano rientra in toto in questa schiera.
Specchia, per essere ancora più chiari, è un personaggio positivo perchè nei suoi limiti ha perseguito ed attuato dei fini buoni. Egli non è un eroe, non è un esteta dannunziano, non ama il bel gesto e non fa sfoggio di retorica, non ha mai tramato seguendo la libido del potere, utilizzando qualsiasi mezzo pur di coronare i propri egoistici obiettivi; Gaetano non è nemmeno il miglior uomo possibile, ha limiti e difetti fin troppo chiari, eppure ha saputo dare un significato alla sua vita, ponendosi problemi e obiettivi ai quali tanti altri, specie nella sua condizione sociale, non pensavano nemmeno.
Nel suo sforzo di conoscere la verità per metterla a disposizione del prossimo, di testimoniare una cultura intesa nel suo senso più profondo, che diventa, cioè, norma di vita, comportamento quotidiano, inalienabile senso di responsabilità, il protagonista assurge a modello, a pietra di paragone scomoda, con la quale i più preferiscono eludere ogni confronto, avvertendone il fastidio.
Gaetano, riprendendo l'eterno dilemma tra essere e sembrare, sceglie il primo corno e cerca, tenendo presente quello che gli uomini sono davvero, quando li spogli di ogni orpello, il modo idoneo per agire, per realizzare il suo obiettivo. La sua scienza economica non è vuota apparenza, non è subordinata all'amor proprio, ma tende ad illuminare la migliore possibilità esistente, il più proficuo sviluppo presente in re, da uomo consapevole che "un muro si può rifare nuovo anche senza buttarlo giù, levando un mattone per volta e rimettendocelo nuovo", come si legge nel sesto capitolo (pag. 59), e che, insomma, i veri progressi sono lenti, ma restano.
Specchia sa che le cose cambiano continuamente, in maniera quasi impercettibile, e che quindi è un'illusione pensare di fermare ogni mutamento, ma è altrettanto convinto che il cambiamento non coincide automaticamente con il progresso e che quindi bisogna che gli uomini si impegnino per modificare le parti negative del muro, lasciando al giusto posto le altre. Solo così si procederà verso il meglio, che è un'opzione, non un risultato assodato.
E' un'idea che si oppone al rischioso e fragoroso metodo rivoluzionario, che spesso peggiora i mali esistenti e provoca rigetti, per arrivare a duraturi risultati che sono però rimasti estranei ad un'Italia che, dopo la stasi del Ventennio, finisce desolatamente, nel secondo dopoguerra, per cambiare quello che doveva rimanere e per modificare quello che invece bisognava lasciare.
E Gaetano? Una classe dirigente che avesse preso ad esempio il nostro conservatore avrebbe potuto davvero attuare quelle possibilità realmente progressiste che, in modo paradossale, derivano da un personaggio come Specchia; però prevarranno i mandarini come Sanleo, ben diversi dal loro vecchio docente universitario. E non si è trattato della potenzialità migliore.
Ma in questo modo il cerchio si chiude e ritorniamo al punto di partenza: chi vince realmente? Comunque la si pensi, vuole dirci Casiglio, uomini come Gaetano Specchia sono esistiti e non possiamo impunemente cullarci nelle nostre finzioni, dimenticandoli e fingendo che la storia veda sempre verso il meglio, sanzionando meriti e demeriti con una sorta di giudizio inappellabile.
Un messaggio ostico, come si vede, e che, paradosso tra i paradossi, proviene da uno scrittore di sinistra che, con la sua attenzione rivolta all'uomo e ai suoi doveri, ha trovato soprattutto l'adesione della critica militante cattolica, a fronte di una di sinistra che ha posto maggiormente l'accento sulle carenze sociali del personaggio.
II- IL SUD E LO SFONDO SFUMATO
A nessun lettore de Il conservatore può sfuggire il ruolo fondamentale del Sud, profondo e vivo, che si mostra in certe pagine con la forza di una rivelazione, ma nel momento in cui si va a definire con precisione il teatro dei luoghi, facendosi trasportare magari dalle suggestioni del verismo, ci si trova di fronte ad una indubbia difficoltà.
Il Sud descritto nel romanzo sfugge ad una troppo precisa delimitazione: "L'immagine di Gaetano Specchia all'età di cinque anni era -ed è ancora- fissata in color seppia nell'ingrandimento che emerge dalla penombra del secondo salotto di casa" (pag. 9); questa fotografia forse si trova ancora da qualche parte, insieme a "segni e tracce" (ivi) della sua esistenza, ma dove?
Il paese del mite docente non è mai volutamente nominato, pur essendo sempre presente, con le sue vie, i suoi circoli ricreativi e politici, le sue sommosse contadine, i suoi cortei; spesso si alterna con altre città più grandi, ma nel momento decisivo perde la sua nettezza, restando un centro come tanti.
Segno inconfondibile, questo, del valore emblematico che Casiglio voleva dare alla sua narrazione, come sappiamo, un senso che rischiava di perdersi di fronte a possibili letture campanilistiche e quindi riduttive. Lo scrittore scarta il Meridione pittoresco e ricreato a forti tinte, che scade nel bozzetto o nel folcloristico, teme i possibili equivoci di un lettore condizionato da tante opere precedenti, e si regola di conseguenza.
Un'operazione riuscita, se la maggior parte dei recensori del volume parlerà vagamente della provincia meridionale e un critico, scrivendo sulle pagine della barese "Gazzetta del Mezzogiorno", noterà che il lettore stenta ad orientarsi, concludendo con questo interrogativo: "Nacque in Capitanata, o in Lucania? Qualche turista potrebbe trovare nella nostra o nella regione circostante un monumento o una lapide, che ricordi un concittadino di Gaetano, che aveva insegnato retorica presso Ludovico il Moro (pag. 27). Del suo paese non sappiamo altro; ma forse il monumento non c'è, né la lapide!"1.
Questa costante caratterizza anche tutti i successivi romanzi. Dobbiamo aggiungere, però, che la tendenza ad evitare eccessive determinazioni si estende anche a personaggi, vicende e partiti, con motivazioni che vanno dal timore di sfociare nel cronachistico, trattandosi di vicende di pochi decenni prima, ancora ricche di influenze sul presente, al suo desiderio di coinvolgere il lettore, assegnandogli un ruolo attivo.
Nel capitolo Di un vincolo possibile e di un vincolo rifiutato un don Vincenzino incontra il protagonista e "poi gli chiese se conoscesse l'esistenza di una associazione, di carattere riservato, che si proponeva la mutua assistenza e protezione, in nome di alti princìpi morali" (pag. 41).
E' la massoneria, evidentemente, ma il testo non lo dice; persino quando, nell'importante capitolo Meglio il nulla, si descrive l'incontro di Gaetano con don Giustino, "nella sua casa alle falde del Vulture tremante" (pag. 64), tocca a chi legge aggiungere il cognome, Fortunato, e la città, Rionero.
L'ultimo esempio riguarda i capitoli finali, Le assise del popolo e La grande paura, nei quali la brulicante realtà dei partiti democratici si ritrova al naturale, ma con periodi come questo: "Il brutto era che la sede era troppo vicina allo spiazzo in cui gli aderenti al partito di massa usavano prendere il fresco nelle sere d'estate" (pag. 229).
Il lettore, insomma, integra e capisce che il messaggio dello scrittore passa attraverso uomini, cose e momenti storici, ma va anche al di sopra di essi, con il suo profondo significato.
1 A. CARDONE, Dal più che torbido Sud un emulo di Filippo Rubè, in "Gazzetta del Mezzogiorno", 22 giugno 1974, pag. 3.