TACITO PRE-FUTURISTA E D’ANNUNZIO PASSATISTA:
MARINETTI TRADUTTORE DELLA GERMANIA
La bibliografia critica su Filippo Tommaso Marinetti continua ad aumentare ad un ritmo notevole, ma si può tranquillamente dire, boom del Futurismo a parte, che pochi autori hanno avuto una vita e una produzione artistica così ricca di spunti di analisi, così stimolante per gli studiosi e per i lettori.
Effetì e i suoi amici incendiari formano un gruppo di persone che non finisce mai di stupire, dote che si prolunga anche oltre gli anni più vitali del movimento, uomini capaci di tutto e del contrario di tutto. Anche di tradurre dal latino un’opera vecchia di oltre diciotto secoli, facendola diventare, per giunta, un momento dell’affermazione dei dogmi futuristi, nobilitati dall’illustre precedente, contro i nemici di sempre, i passatisti di ogni genere e di ogni tempo.
E’ il caso della traduzione della Germania di Tacito realizzata da Filippo Tommaso Marinetti, apparsa nel 1928, presso l’Istituto Editoriale Italiano di Milano, di cui alcune copie circolano ancora presso le librerie specializzate, che, nei rispettivi siti informatici o sui cataloghi cartacei sottolineano, ed a giusta ragione, oltre alle caratteristiche del testo, anche la singolarità dell’operazione letteraria.
Prima edizione a parte, di pregio, stampata su carta filigranata con fascio littorio, comprensiva del testo latino, negli anni Novanta, sull’onda del revival futurista, la Germania è stata ristampata due volte, nel 1993, presso la casa editrice siciliana Sellerio, e nel 1995, in un agevole libretto economico, per i tipi di Stampa alternativa, dal carattere ben diverso rispetto a quello degli anni Venti, ma che fa risaltare, una volta di più, il carattere intrinsecamente alternativo, malgrado il passare del tempo, delle opere del Nostro. Il testo, che riproduce la sola traduzione in italiano di Marinetti, è a cura di Mauro Pedretti, e da esso citiamo.
L'iconoclasta dei musei e delle biblioteche, il nemico dei professori pedanti e passatisti, l'avversario feroce delle scuole, intese come luoghi inutili e polverosi, il cantore della bellezza della modernità, non ha saputo rinunciare al piacere di cimentarsi con il grande prosatore latino, compiendo un abissale salto a ritroso nel tempo.
Per fortuna, potremmo dire con un pizzico di arguzia, le biblioteche non erano state distrutte, prendendo alla lettera quanto scrivevano Effetì e gli adepti del suo movimento!
Sicuro che il suo gesto avrebbe seminato sconcerto in molti, Marinetti provvede a scrivere una prefazione, in cui individua alcuni punti fondamentali che spiegano, in modo decisamente persuasivo, il senso della scelta.
Si tratta di un’introduzione brillante, che mostra uno scrittore combattivo, tutt’altro che incline ad indossare la più solenne delle toghe per cimentarsi con la prosa latina. Anzi.
Dopo aver ricordato le insistenze del caro amico Umberto Notari (compagno di varie avventure e testimone, tra l’altro, delle sue nozze con Benedetta), che gli ha chiesto di includere la versione nella “Collezione Romana”, Marinetti enumera una serie di motivazioni che spaziano in campi diversi.
La prima è di tipo vitalistico, per cui l’impegno di traduttore diventa un momento piacevole, pieno di positiva energia, contrariamente a quanto si potrebbe in apparenza pensare, fuso in modo armonico con i piaceri di “una giornata caprese piena di lunghe arrostiture al sole, tuffi a capo fitto nelle liquide turchesi delle grotte verso cieli inabissati, conversazioni immense colla futurista Benedetta mentre allatta la nostra pupa rumorista” (p. 9).
E’ una giornata-tipo vista in una luce radiosa, con la divertente rima finale tra la “futurista” compagna e la “rumorista” figlia.
Ma Tacito offre anche l’occasione per un viaggio a ritroso, per un tuffo, di diverso genere, nelle memorie giovanili, fino a ritornare all'amato collegio dei Gesuiti, nella nativa Alessandria d’Egitto, dove già traduceva La Germania, sia pure in francese, lingua che si lega alle sue prime esperienze artistiche.
Si tratta, dunque, di una predilezione di vecchia data, che trova le ragioni della sua continuità nel riconoscimento, ad opera del maturo scrittore, di Tacito come modello di energia verbale, di precisione, di efficacia, il che lo rende una sorta di precursore del linguaggio futurista, che vuole sviscerare le potenzialità della parola, evitando inutili perifrasi e ridondanze.
Intorno a Tacito, pertanto, non c’è la “ripugnante polvere del passato” (ivi), ma si respira un’aria pura e nello stesso tempo familiare. Egli è “lo scrittore latino più futurista” (ivi), intendendo il Futurismo come una sorta di categoria atemporale, e poco dopo si legge l’affermazione più provocatoria, nella quale si contrappone l’autore della Germania a tutti i più ragguardevoli scrittori novecenteschi, a partire, nientemeno, da Gabriele d’Annunzio, non casualmente scelto come esempio: l’antico storico è “molto più futurista dei maggiori scrittori moderni” (p. 10).
In questo modo Marinetti riporta in primo piano la sua avversione per il Vate di Gardone, con il quale i rapporti non erano mai stati davvero idilliaci. In fondo, erano troppo uguali per stimarsi, e questo atteggiamento di amore-odio, in cui le polemiche si alternano agli attestati di stima, veniva condiviso anche da altri futuristi, come Carli e Settimelli.
Come ha scritto Gino Agnese, nella sua biografia sul fondatore del Futurismo, “Verrà una stagione durante la quale Marinetti e l’Imaginifico si troveranno vicini e si scambieranno gesti e parole di sonante, reciproca considerazione. […] Ma profondamente e veramente, i due non si capiranno mai: Marinetti resterà agli occhi del Vate «il cretino fosforescente» e D’Annunzio confermandosi nel giudizio dell’altro «un Montecarlo di tutte le letterature», fuligginoso di anticaglia museale”
[1].Il prolisso, retorico, roboante d’Annunzio mostra tutti i suoi limiti, se si paragonano le sue pagine con quelle del proto-futurista latino, potente nelle descrizioni e nelle narrazioni, così come nei giudizi morali, capace di trovare il termine più adatto, ricorrendo ad arditi e scorciati costrutti.
Tacito diventa pertanto un precursore illustre, un modello che dà lustro alle parole in libertà dei futuristi, che hanno, in sostanza, operato nella lingua italiana una rivoluzione simile a quella dell’autore della Germania in quella latina. Un’operazione comune, che si risolve nella riaffermazione della necessità di un’arte essenziale, sintetica e vigorosa.
Da notare che il Nostro avrà anche negli anni successivi parole di stima per lo scrittore latino. Nel 1939, ad esempio, dirà: “Letterariamente la sintesi nasce con Tacito trionfa nella Divina Commedia nel Principe di Machiavelli…”[2]. Il ruolo di Tacito è dunque fondamentale, ragion per cui egli viene posto all’inizio di un importante processo ed affiancato a due altri punti di riferimento della letteratura mondiale.
La Germania, con il suo argomento e la sua brevitas, ha sempre esercitato un grande fascino sui lettori di ogni età ed epoca, includendo anche molti degli studenti liceali, che ancor oggi si cimentano con essa, restando colpiti dalla sua peculiarità.
Si tratta, com’è noto, di un’agile e singolare opera scritta nel 98 d.C., prima di cimentarsi, negli anni successivi, con i due più ampi e complessi lavori storici, le Historiae e gli Annales, nella quale Tacito fornisce un quadro esauriente dei popoli germanici, dall'area abitata agli usi quotidiani, raccogliendo notizie molto utili per la conoscenza di queste antiche popolazioni, che incarnano il fascino del selvaggio, della forza allo stato potenziale, che un giorno potrebbe avere la meglio sulla ormai invecchiata civiltà latina.
Tacito descrive i barbari evidenziandone la gioventù, la ricchezza di energia e di forza, soffermandosi sulle enormi potenzialità, frenate, per fortuna di Roma, dalla loro conflittualità interna, dalle violente lotte tra i vari popoli e all’interno degli stessi.
Cosa avverrà quando i nemici rivolgeranno concordemente le loro mire contro il popolo romano? E’ una domanda sconsolata, quella che si pone, con il suo piglio moralistico, il Nostro, il quale vede nettissimi intorno a lui i segni della crisi dell’impero romano e non s’illude in un ritorno ai valori della romanitas.
E’ risaputo quanto di giusto ci fosse nell’opera del più grande storico latino, la cui tesi centrale, secondo Marinetti, poteva insegnare qualcosa, mutatis mutandis, anche agli uomini del Ventennio, ragion per cui egli rimarcava con chiarezza anche i risvolti politici della sua traduzione, affermando che “la visione imperiale della Germania fissata da Tacito è tuttora politicamente istruttiva e ammonitrice” (p. 10).
Siamo verso la fine degli anni Venti, non lo dimentichiamo, e le aspirazioni territoriali italiane, fatte proprie dal Fascismo al potere, che dovevano culminare con la conquista dell'Etiopia e la proclamazione dell'Impero, erano molto vive. C'era tutta una cultura che andava in questa direzione e Tacito poteva senz’altro contribuire a riaffermare i valori positivi e l’orgoglio dell’Italia, centro indiscusso del mondo civile.
Marinetti, però, trovando nella Germania la necessità di ridare lustro agli ideali che sono stati alla base della grandezza romana, contrapposti al mondo germanico, sempre pericoloso, oggi come ieri, accoglie la lezione dell’autore latino senza il suo pessimismo di fondo, e non poteva essere altrimenti.
Così inquadrata, l’operazione di Effetì finisce per non fare una grinza, malgrado le apparenze, inserendosi alla perfezione all’interno dell’opera del futurista e rivelandosi utile anche per la comprensione di un periodo così particolare del Novecento.
L’ultimo punto della prefazione marinettiana chiama in causa la scuola, con delle osservazioni che non hanno perso d’interesse.
La polemica contro l’istruzione tradizionale è costante nel pater del Futurismo e nei suoi adepti. Le scuole sono luoghi sterili, di incultura, che vanno distrutti, che contribuiscono a spegnere quanto di buono c’è nei giovani.
Di questa scuola passatista, tra l’altro da poco riformata da Gentile, lo studio del latino era uno dei simboli più importanti e Marinetti, nella circostanza, in una prospettiva più riformatrice che radicalmente iconoclasta, auspica un diverso approccio con la materia, condannando “l’assurdità dell’insegnamento scolastico latino, basato su traduzioni scialbe, errate e su cretinissime spiegazioni di professori abbrutiti, tarli di testi e teste” (ivi). Servono, dunque, a suo modo di vedere, traduzioni in una lingua più moderna e coinvolgente, oltre che dei docenti che privilegino una dimensione viva e attualizzante della materia, evitando noiosissime spiegazioni su regole ed eccezioni.
I grandi autori latini, evidenzia il Nostro, possono però ancora trasmettere il loro messaggio, se si trovano degli “interpreti sensibili capaci di trasfondere la vita del genio” (ivi), e lui ha mostrato come ciò possa praticamente realizzarsi, scegliendo come modello, non casuale, il più futurista degli scrittori latini.
Si può dire che la scuola attuale, lasciata alle spalle la dimensione cattedratica e retorica, non senza esagerazioni in direzione opposta, ha applicato concetti simili, pur essendo molto lontana dai presupposti marinettiani, con dei docenti che snelliscono al massimo la parte grammaticale e privilegiano la conoscenza della civiltà latina, con i suoi valori e i suoi collegamenti con il mondo moderno, e le pagine più significative dei classici.
Ma negli anni Venti Effetì aveva ben poche speranze di essere ascoltato e lo dimostra, del resto, la sua stessa provocazione finale: “Se ciò non è possibile, urge rimpiazzare le ore di latino idiotizzato con ore di Meccanica e Estetica della Macchina, questa essendo oggi l’ideale maestra di ogni veloce intelligenza sintetica e di ogni vita potentemente patriottica” (ivi).
Lo sterile latino può pertanto, se non ci sono le condizioni, lasciare tranquillamente spazio al mito futurista della macchina, ai simboli della vita moderna, della quale l’uomo deve sforzarsi di comprendere i meccanismi, per dare prova del proprio dinamismo esistenziale, della propria capacità di sintesi e di comprensione degli eventi, della propria grandezza di essere sociale ottimisticamente e virilmente proteso verso un futuro visto in una luce positiva.
Quanto al riferimento patriottico, è un modo per ricordare che queste doti vanno sempre messe a disposizione della Patria, di quell’Italia del Ventennio con i suoi miti e la sua propaganda, che nel 1929, l’anno dopo la pubblicazione della traduzione della Germania, avrà anche la sua prestigiosa Accademia, di cui Marinetti farà parte. E sarà, ancora una volta, una scelta che farà discutere, tanto per cambiare, simbolo della resa alle lusinghe del potere o della vittoria del Futurismo, che svolge opera di colonizzazione.
Non c’è dubbio, nel complesso, che Marinetti abbia le idee chiare intorno al suo lavoro di traduttore, facendo perno su di una grande simpatia per Tacito e per l’opera affrontata; e tutto questo si nota nella traduzione, che è, come nelle intenzioni, basata su di una lingua viva e sempre aderente all’originale latino, senza gratuite libertà, ma che, quanto alla precisione, si attirò anche delle attenzioni tutt’altro che benevole, a causa degli errori in cui Effetì incorse.
Particolarmente note sono le parole di Antonio Gramsci, che nelle sue Lettere dal carcere si espresse così:
“Finora almeno le traduzioni dei classici erano almeno fatte con cura e scrupolo, se non sempre con eleganza. Adesso anche in questo campo avvengono cose strabilianti. Per una collezione quasi nazionale (lo Stato ha dato un sussidio di 100.000 lire) di classici greci e latini, la traduzione della «Germania» è stata affidata a…Marinetti, che d’altronde è laureato in lettere alla Sorbona. Ho letto in una rivista un registro delle pacchianerie scritte da Marinetti, la cui traduzione è stata molto lodata dai…giornalisti. «Exigere plagas» (esaminare le ferite) è tradotto: «esigere le piaghe» e mi pare che basti: uno studente del liceo si accorgerebbe che è una bestialità insensata”[3].
L’ironia è acre e trasuda da ogni parola. Marinetti, come si sa, era laureato in legge a Genova, per ossequio alla volontà paterna, e non certo alla Sorbona, dove al massimo aveva superato, a stento, l’esame di baccalaureato, al termine degli studi secondari; inoltre le lodi dei giornalisti servono a poco, lascia intendere il Sardo, se anche questi non conoscono alla perfezione il latino.
Per Gramsci, insomma, Effetì ha compiuto una sorta di delitto di lesa maestà, uscendo fuori dal suo ambito naturale di interesse, violando quella sacralità degli studi che a lui era cara (il passo ricordato da Gramsci è alla fine del settimo capitolo, dove Filippo Tommaso traduce: i guerrieri germanici “alle madri e alle spose mostrano le loro ferite; quelle non paventano di contare, esigere le piaghe e portano ai combattenti cibi ed esortazioni”, p. 20).
Il Sardo ha la sua parte di ragioni, non c’è dubbio, ed esaminando la versione si possono aggiungere altri galeotti qui pro quo (alcuni verbi resi con un significato diverso, un superlativo relativo che diventa assoluto, ecc.), che una più attenta revisione avrebbe potuto tranquillamente eliminare, ma le sue valutazioni sono nel complesso eccessive.
Sfogliando le pagine della Germania, resa in una lingua che si fa apprezzare, si distinguono anche dei passaggi brillanti e felicemente sintetici, posti accanto a dei momenti in cui la ricerca della precisione porta a dei risultati meno felici, con alcune frasi indebitamente semplificate (per eccesso di futurismo applicato?), a dispetto di alcune sfumature, sulle quali invece Tacito voleva porre l’attenzione e che non andavano sottaciute, proprio per la natura dello stile dello scrittore latino.
Le pecche, insomma, non restano nascoste, tanto più perché si tratta di un testo famoso, ma tutto questo va posto su uno dei due rituali piatti della bilancia, per un’articolata valutazione finale.
In ultima analisi, non possiamo nemmeno dimenticare che non siamo di fronte, semplicemente, ad una delle tante versioni del libro tacitiano, dal momento che l'autore si chiama Filippo Tommaso Marinetti, che, con la sua indiscussa maestria, ci fornisce anche, in questa Germania futurista, tanti motivi di stimolo e di confronto, senza mai rinunciare a quel gusto della polemica e della provocazione, che noi posteri dimostriamo di gradire oltremodo.
[1] G. AGNESE, Marinetti. Una vita esplosiva, Camunia, Milano, 1990, p. 53.