IL “SUGO” DEL VAGABONDAGGIO
Come si evince dalla nostra analisi, condotta sull'intera produzione novellistica del Catanese, senza tralasciare i due romanzi più importanti, il vagabondaggio riveste una notevole importanza ed è presente in un'ampia gamma di accezioni e sfumature.
A giusta ragione il De Meijer ha notato che nel mondo artistico verghiano l'uomo non è mai statico, ma si trova “in mezzo a una folla che «cammina e cammina sempre», e si trova partecipe del vasto movimento della vita, o, per usare termini della prefazione definitiva de "I Malavoglia", dell'«immensa corrente dell'attività umana»".
Con il movimento, spaziale e temporale, l'uomo, lo voglia o meno, deve sempre confrontarsi, fosse anche, come Mazzarò, quando la morte si profila ormai vicina e terribile. La vita stessa è contraddittoria, fatale movimento, attimo dopo attimo, verso la stasi eterna, la morte, ultimo e temuto approdo dell'esistenza, di fronte alla quale l'uomo non trova nulla di meglio che coltivare, con tutte le sue forze, l'illusione della stabilità.
La meditazione sulla transitorietà dell'esistenza, l'avvertimento del tempo che passa, finisce per essere angosciante e ne "La Barberina di Marcantonio" Verga usa un'immagine molto significativa, la "ruota che girava sempre, notte e giorno, nel torrentello chiuso in mezzo a una forra scura, e non si udiva altro, in quella solitudine" (pag. 901). Il povero mugnaio, immalinconito da questo stillicidio, non troverà altro rimedio che risposarsi.
Nella novella "Vagabondaggio", invece, troviamo il riferimento all'acqua del fiume, "che se ne andava al mare, ma lì pareva sempre la medesima, fra le due ripe sgretolate" (pag. 465).
La vita è un movimento negativo e spesso, nelle pagine del Catanese, risuona l’"optimum non nasci" degli antichi, posto non a caso sulla bocca del più disilluso e consapevole eroe verghiano, Rosso Malpelo: "E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio" (pag. 184). Così si esprime il celebre personaggio a proposito dell'asino grigio, che, da morto, "se ne ride dei colpi e delle guidalesche con quella bocca spolpata e tutta denti" (ivi).
Tutti gli uomini sono dei vinti e ogni realtà umana è transitoria, come sappiamo da pagine come quelle de "La festa dei morti".
A questo punto possiamo comprendere con più chiarezza cosa Verga intenda per vagabondaggio. In generale, tutta la vita dell'uomo è un vagabondaggio, un cammino irrefrenabile e fatale, dalla durata e dalle vicissitudini imprevedibili, privo di senso in sé; la vita non è un passaggio, nel senso cristiano, ma un movimento subdolo, di cui gli uomini acquistano piena e reale consapevolezza solo nei momenti cruciali dell'esistenza, per una sorta di autoinganno o autodifesa della specie.
Il vagabondaggio si identifica con la nostra esistenza, in un universo in perenne mutamento. Ma esso mostra all'uomo comunemente il suo solo volto fenomenico, e quindi parziale e sfumato, che costringe gli esseri viventi ad un intenso, frenetico movimento, di qua e di là, lungo le vie del mondo, o ad una continua, estenuante iterazione.
Questi ultimi due momenti, tra l'altro, non sono necessariamente in contrapposizione, anzi. Se c'è, infatti, una iterazione particolarmente ossessiva, come nella vita cittadina della raccolta milanese "Per le vie" o ne "Il maestro dei ragazzi", il cerchio del movimento errabondo può chiudersi più lentamente, come ne "Le marionette parlanti" o, addirittura, a distanza di molti anni, come nella novella "Vagabondaggio", in cui Grazia, ormai vecchia, ritorna a passare per Primosole e ritrova il vecchio compagno di giochi.
Il vagabondaggio fenomenico è quello che tormenta con più evidenza gli uomini, ma è anche quello che fa nascere l'illusione della stasi, della perfetta permanenza, come nel finale della novella di Nanni Lasca.
Esso è in primo luogo figlio della povertà e non a caso Filomena in "Mondo piccino" afferma che "i poveretti non si riuniscono altrove che al camposanto" (pag. 900), costretti come sono a guadagnarsi il pane ovunque ci sia una possibilità, anche se non viene mai meno la speranza di incontrarsi nuovamente, visto che "Il mondo è tondo, e chi non muore si rivede" (pag. 944).
Ne "I Malavoglia" Alfio Mosca afferma sconsolatamente che solo chi è ricco "può stare dove gli piace!" (pag. 99) e in "Pane nero" massaro Nanni risponde ai vicini, che gli fanno notare il pericolo delle febbri malariche, nelle fertili terre della Lamia: "Quasi fosse un barone… — che può fare quello che gli pare e piace!" (pag. 299).
I poveri sono condannati al movimento, come gli artisti girovaghi in “Quelli del colera", i mietitori che vengono dalla Calabria, in "Malaria" e "Vagabondaggio", il cocchiere in "In piazza della Scala" o il protagonista de "Il maestro dei ragazzi".
Un esempio ancor più persuasivo è quello rappresentato da Grazia, che, come sappiamo, continua nel suo "misero vagabondaggio" (pag. 480) fino alla fine dei suoi giorni.
Ma neanche i protagonisti d'eccezione delle novelle galanti dei "Drammi intimi" e de "I ricordi del capitano d'Arce" restano del tutto esenti dall'inquieto e penoso movimento; la meditazione sul tema perde la solita profondità per adattarsi al contesto galante e leggero, ma, in fondo, è possibile anche qui scorgere una dolente realtà umana.
L'approdo ideale dallo sterile movimento è costituito dal "nido" della stasi agiata, come nel caso di Nanni Lasca, mentre non altrettanto fortunato è il maestro don Peppino, nella seconda novella del libro "Vagabondaggio".
Il valore positivo della stasi agiata, però, può essere sempre messo in discussione dagli eventi avversi o dall'imprevidenza e dall'incapacità degli uomini: è il caso di "Ammazzamogli", che dopo ben 57 anni viene strappato alla stasi dell'osteria, o di don Candeloro, costretto a spiantare il teatro dall'impossibilità di sostenere il confronto con l'agguerrita concorrenza.
Il vagabondaggio fenomenico è un momento in sé negativo, che però aumenta la consapevolezza e l'esperienza dell'uomo, utili, in ogni caso, solo se riescono a portare ad un miglioramento della sua esistenza, altrimenti si risolvono in un mero aumento di pena.
Per opporsi al vagabondaggio fenomenico, al movimento che ha un inizio e una fine, e per eludere, fino a quanto è possibile, il confronto con il vagabondaggio nella sua completezza, lo scorrere inesorabile della vita fino alla sua imperscrutabile fine, l'uomo avverte fortemente il bisogno di ancorare la propria esistenza.
Centro per eccellenza è, ovviamente, la famiglia, che si eleva a garante dei sentimenti, negati al di fuori, dell'amore gratuito, che riesce a sfuggire alla ferrea maglia dei rapporti economici, posti alla base delle relazioni umane.
Essa rappresenta una salda forma di difesa reciproca, che trova nella casa, vero ombelico del mondo, la sua materializzazione. Tutto si muove e finisce, ma l'amore familiare può fornire la salutare illusione della stabilità. "Ora sono proprio solo al mondo come un puledro smarrito, che se lo possono mangiare i lupi!" (pag. 148), esclama Jeli, e i drammi dei personaggi verghiani spesso precipitano con la perdita di uno o di entrambi i genitori.
Malgrado tutto, il destino e i bisogni economici non cessano di insidiare la famiglia e possono rompere l'originaria armonia, consegnando i componenti in balia del movimento. Allora bisogna trovare un nuovo centro e non importa se mangiando “pane nero”, come Lucia, o chiudendo gli occhi sul torbido passato sentimentale della donna sposata, come Nanni Lasca.
Raccolta dopo raccolta, come abbiamo ampiamente visto nella nostra analisi, la famiglia appare sempre più debole, dopo la fase epica di “Vita dei campi” e de “I Malavoglia", in cui la stasi, quale che sia, viene risolutamente preferita al vagabondaggio e padron ‘Ntoni, ripetendo i suoi proverbi, dice che "ad ogni uccello il suo nido è bello" (pag. 161), reputando beato chi muore nel proprio letto" (ivi).
In seguito la visuale si allarga notevolmente, il nuovo fa la sua comparsa e il vagabondaggio si afferma sempre più, ai danni propri della famiglia e dei suoi primitivi ideali, ma, per quanto spogliata di “religiosità”, la sua fondamentale funzione non verrà mai del tutto meno.