SUD E CRISI DEMOGRAFICA: IL CASO DI SAN SEVERO

           

 

            Le discussioni intorno al numero degli abitanti di San Severo sono state negli ultimi tempi piuttosto accese. Con gli ultimi dati, però, la questione sembra essere chiusa, almeno per il momento, attestando che la città è al di sotto della soglia dei 50 mila abitanti. Il numero, come si legge nel sito dell’Istat, è fissato per il 2022 a 49.342 residenti e la tendenza è decisamente verso il decremento, visto che, oltre all’aumento delle partenze, si registra un numero di morti superiore a quello delle nascite. Se si osserva l’andamento degli anni Duemila, si nota che si è passati dagli oltre 55 mila abitanti del 2001 agli attuali, con un saldo negativo di oltre 5 mila persone.

         La soglia dei 50 mila abitanti è un dato numerico, ma anche una soglia psicologica, che fotografa una situazione di grave crisi. I sanseveresi, insomma, sono dunque sempre di meno e sempre più vecchi.

         Le discussioni intorno al numero dei concittadini sono state in parte viziate da preoccupazioni poco nobili, come la diminuzione degli stipendi degli amministratori e del numero dei consiglieri comunali. Al di sotto della soglia ci sono dei cambiamenti negativi per le tasche e i privilegi di alcuni. In certe polemiche, poi, hanno prevalso gli interessi di bottega partitica, che hanno portato a sminuire o ad enfatizzare il dato.

         Sgombrando il campo da ogni interesse di questo tipo, resta la gravità di una situazione che non può non apparire profondamente preoccupante. 

         Intendiamoci: la tendenza al decremento è propria di tutta l’Italia, con sommo disinteresse del mondo della politica, che non ha mai investito nel futuro della nazione, e della stessa opinione pubblica, distratta da altri problemi più personali. Finora non si è mai andati oltre delle semplici dichiarazioni d’intenti. Ma in questo contesto assistiamo anche, e questa è forse la nota più dolente di tutte, ad un costante travaso di energie dal Sud al Nord, con il risultato che le risorse più importanti per invertire la china lasciano il territorio, volenti o nolenti, per trovare lavoro nel Settentrione o addirittura all’estero.

         Basta guardarsi intorno e riflettere sulla situazione dei propri familiari e dei propri amici, per accorgersi che la maggioranza dei giovani laureati ha lasciato San Severo e quelli che stanno per diplomarsi considerano questa scelta inevitabile, se non persino naturale. Spesso le scelte universitarie vengono fatte proprio in questa prospettiva, scartando gli atenei pugliesi per favorire quelli di altre regioni. Anche in questo caso si ha un travaso di risorse dai più poveri ai più ricchi, con il risultato di aumentare sempre più le disparità.

         L’emigrazione intellettuale si affianca a quella di altre categorie, che nel centro-nord trovano spesso la sistemazione inutilmente cercata a San Severo (incluso il rispetto reali dei contratti di lavoro, che talvolta da noi sono ancora un optional). Si pensi ai tantissimi operai e artigiani che lavorano ovunque, facendosi apprezzare per le proprie capacità.

         Si tratta, insomma, di un vero e proprio esodo, che avviene in una sostanziale indifferenza e che pure dovrebbe essere in cima all’agenda pratica di chiunque ha responsabilità amministrative, a tutti i livelli. Ma è anche la conferma di un sostanziale fallimento delle politiche di sviluppo degli ultimi decenni.

         La mente torna indietro ad un altro esodo, quello della seconda parte degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta. Fu una svolta di dimensioni epocali, come confermano anche i numeri, che ha cambiato in profondità la composizione sociale della città. Nel 1960 hanno lasciato San Severo 2206 persone, che nel 1961 diventano addirittura 2662, a fronte di 750 immigrati. La nostra stazione venne presa d’assedio da tanti concittadini che si spostavano nel triangolo industriale dei Nord, trasformandosi in operai.

         Lo sviluppo industriale di una parte della nazione avveniva utilizzando la manodopera di un’altra parte. Per gli economisti era un fenomeno positivo, visto che il surplus di braccianti e disoccupati meridionali trovava una più adeguata occupazione al Nord, trasformando per sempre il volto di città come Torino e Milano. Ma sotto i nudi dati si nascondevano il dolore e la nostalgia del distacco, solo in parte temperato dall’entusiasmo dei giovani. In ogni caso, l’epopea delle valigie di cartone e dei viaggi sul Lecce-Milano portò, in un contesto di boom economico, ad un miglioramento anche delle condizioni di chi rimaneva.

         Nel 1963 sugli schermi della Rai nazionale andarono in onda le puntate dell’inchiesta giornalistica Viaggio nell’Italia che cambia, curata da Ugo Zatterin. San Severo è già allora una città paradigmatica, un esempio importante per comprendere la rilevanza dei problemi italiani. Il giornalista viene in città e nota, con un ottimismo tipico del momento, che i lavoratori della terra rimasti riscuotono delle paghe migliori, visto che è venuta meno la concorrenza, e dunque stanno meglio. Bisognerà solo modernizzare l’agricoltura, e prima o poi la mentalità giusta si diffonderà anche nel settore primario.

         San Severo si avvia verso la modernità e pian piano il benessere aumenta, mettendo a tacere tutti i dubbi sul reale sviluppo della situazione. Anche Nino Casiglio, nel 1977, quando pubblicherà il romanzo Acqua e sale, parlando di un’occasione perduta, non sarà ascoltato. Lo scrittore notava, raccontando la storia di Donato Marzotta, come la città, insieme con il resto del Sud, stesse perdendo i suoi pregi per valorizzare i suoi difetti.

         Con gli anni l’illusione di un Meridione autonomo e in grado di procedere con le proprie gambe si è scontrata con lo sviluppo di politiche miopi e clientelari. Il sogno di una facile industrializzazione ha lasciato ben presto spazio alla realtà della chiusura delle strutture, tagliate fuori dal mercato, mentre lo sviluppo dell’agricoltura non ha raggiunto i traguardi auspicati.

         Arriviamo, così, nel terzo Millennio, con una città sempre più priva di identità, mentre troppo spesso si parla di lei per le vicende di cronaca nera, sin troppo enfatizzate dai mass-media.

         In questo contesto, l’esodo si riaccende, sostenuto anche da alcune costanti della nostra città, come la mancanza di campanilismo, di cui parleremo in un’altra occasione. Di qui la fuga dei giovani e di quanti cercano migliori opportunità in altre zone. La vecchia abitudine al clientelismo e alla furbizia spicciola, d’altra parte, ha trovato un facile richiamo nella ricerca del reddito di cittadinanza, che ha portato una volta di più San Severo sotto i riflettori dei mass-media nazionali, accomunata a Napoli e alla Campania.

         Si è così scatenata quella che viene definita la tempesta perfetta, spingendo tutti alla ricerca di una salvezza personale.

         Siamo poco più di 49 mila abitanti, ma noi conosciamo parecchie persone che vivono da anni fuori città, pur essendo ancora residenti a San Severo. Se il nostro punto d’osservazione è esatto, il numero reale è ancora più basso.

         Da dove si potrà riprendere il filo spezzato? La domanda delle domande, a questo punto, non è eludibile. Non certo negando l’evidenza dei problemi, nascondendosi dietro il proverbiale dito, né, d’altra parte, rifugiandosi in una critica radicale e improduttiva. In fondo, resta la logica della responsabilità, l’invito a fare il proprio dovere, non rinunciando al proprio ruolo. Casiglio chiudeva con questo appello il suo romanzo La strada francesca, e a noi piace riprenderlo.

         In passato, quando qualcuno ci parlava di responsabilità del singolo, avvertivamo sempre un senso di insoddisfazione, quasi di delusione. Poi, con gli anni, vedendo anche i risultati raggiunti da chi voleva cambiare tutto d’un tratto, in modo violento, sulla base di ideologie violente e ipocrite, calpestando il valore della vita umana, abbiamo capito che il richiamo alla responsabilità del singolo è un valore forse limitato, ma solido e reale. La forza della cultura, insomma, può e deve essere un baluardo di fronte alla barbarie imperante. E anche un periodico come questo può essere un segnale di speranza.    

         A questo punto, desideriamo concludere questo articolo con qualche fotografia particolarmente significativa, che riassume un secolo di vita cittadina, attraverso la forza dell’immagine. La prima foto mostra un panorama di San Severo visto dalla stazione. Siamo nella prima parte del Novecento e quello in primo piano è l’attuale viale Matteotti, con il fondo ancora in terra e gli alberelli appena piantati. L’antica città, chiusa nel suo centro storico, appare lontana, come nei secoli precedenti, e sembra quasi di immaginare le antiche mura.

 

         

            La seconda è del 1925. La chiesa di san Lorenzo è circondata solo da case basse, che in alcuni casi hanno lasciato spazio a dei palazzi.  

 

 

         La terza foto ci mostra, nel secondo dopoguerra, i segni del mondo contadino. I carretti sono fermi davanti alle abitazioni.

 

 

 

        La quarta foto è del 1957 e mostra il profilo della città poco tempo prima della costruzione di alcuni orribili palazzoni nelle parti centrali di San Severo. Doveva essere l’arrivo della modernità, nelle intenzioni, e in tanti espressero la propria soddisfazione, ma i risultati furono diversi. Oggi quei palazzi sono dei pugni nello stomaco, tollerati solo per la forza dell’abitudine.

 

 

        L’ultima foto risale agli anni Sessanta-Settanta. La piazza è piena di luci e il fotografo vuole rendere l’idea della modernità, del nuovo che si è ormai affermato sulle ceneri del mondo contadino, insediandosi nel centro della città. L’immagine è suggestiva, avvincente, ma nel contempo, a vederla oggi, offre molti spunti di meditazione.

           

 

 

   

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