L’ULTIMA RACCOLTA POETICA DI SALVATORE RITROVATO
C’è un senso amaro delle cose, nell’ultimo libro di Salvatore
Ritrovato, che si affianca alla dolcezza dei versi e ti resta addosso come
un’impressione duratura, come lo spettacolo di un bosco autunnale. Il titolo,
“Come chi non torna” (Raffaelli Editore, Rimini, pp. 64, euro 10), è già di per
sé emblematico.
Ritrovato, classe 1967, nato a San Giovanni Rotondo ma
residente a Bologna, insegna Letteratura italiana all’Università di Urbino.
Quello da poco in libreria è il suo terzo lavoro poetico, dopo “Quanta vita”
(1997) e “Via della pesa” (2003). Una vena attentamente decantata, la sua, che
raggiunge ora una piena maturità, come sottolinea nella pregevole prefazione il
critico Massimo Raffaeli.
Il tema centrale è quello del ritorno, del nostos, del legame
con le radici, ma interpretato con originalità e con una consapevolezza che
brucia gli entusiasmi, tarpa le ali dell’illusione, negando la possibilità del
ritorno, ma anche di un approdo alternativo, che non sia quello stabilito per
tutti gli uomini.
Il Gargano, così tanto presente nei versi, nelle sue visioni,
nelle sue case, non è l’isola felice, la meta di una ricerca spasmodica, ma una
conferma, sancita sin da prima di fissare sulla carta le impressioni poetiche,
dell’eterno fluire delle cose.
La lirica di Ritrovato scorre con un suo ritmo lento ma
incisivo, come una marea che salga pian piano ma inesorabilmente, specie nelle
centrali “Egloghe”, lasciando in bocca quell’amara dolcezza che è il limo che
distende sull’anima del lettore.
Alle sue predilezioni anglosassoni e italiane, da Bertolucci a
Luzi, ci sembra di poter aggiungere, come lievito dell’originale impasto del
libro, uno stato d’animo che rinvia vagamente a Pascoli, in particolare
nell’unica lirica nel dialetto di San Giovanni Rotondo, “Stralôquie”, affiancata
dalla sua traduzione in italiano. Ma si pensi anche alla prima sezione, “Verso
casa”, con le sue dichiarazioni d’amore per la natura, tra carrubi, pini e more
nere, e il suo congedo tra i morti, tra croci senza nome e brani di epigrafe del
paese nativo (“Usciamo alle campane/ rannicchiati nel vento./ E intorno
deserto”).
La bellezza del ricordo solo di rado si libera dalla stretta
del ghiaccio della maturità esistenziale, che scopre dubbi e fa balenare dolenti
certezze. Il gioco di lanciare sassi nell’acqua, così, nella lirica “A
vent’anni”, viene rivisto con un dubbio che assomiglia molto più ad una domanda
retorica: “Io li gettavo in aria e in ogni anello/ che increspava la superficie/
contavo una speranza:/ nell’ultimo la più grande,/ la vedevo annegare. Era tutta
lì la vita?”.
“Come chi non torna” è una silloge di notevole spessore
poetico, limpida e densa, frutto di una scelta attenta di temi e di vocaboli, un
diario dell’anima, scandito qua e là da date e luoghi garganici. Alla fine, se
la vita scorre e non resta, la poesia torna e si apre all’abbraccio con il
lettore. E’ il miracolo, si sa, dell’arte.