I "CANTI GARGANICI" DI MICHELE RUSSO
Per i tipi delle Edizioni del Rosone è stato da poco
pubblicato un denso volume di poesie di Michele Vincenzo Russo, intitolato
“Canti garganici” (pp. 206, euro 14). L’autore, che non è alla sua prima
esperienza letteraria, è un magistrato in pensione nativo di Rodi Garganico, ma
da tempo residente a Torino.
In questi pochi dati sono contenuti molti elementi
sociologici. Russo, insomma, appartiene a quel novero di intellettuali e alti
funzionari dello Stato che hanno lasciato la propria terra nativa svolgendo
altrove un prezioso e qualificato lavoro. Come accade per tanti, per fortuna,
anche il Nostro non ha dimenticato le proprie radici, alle quali ritorna con
frequenza ora che si trova nella fase matura della sua esistenza. Di qui il
titolo e le liriche contenute in quest’opera, che rientra, come quinto titolo,
in una collana denominata “Gli apolidi”, formata, come si legge, da “libri che
aprono al confronto, che gettano nel mondo della cultura nuove idee, che
provocano, che fanno riflettere da una posizione scomoda”.
La presentazione di questi “Canti garganici” è affidata al
poeta e critico torinese Sandro Gros-Pietro, che nota una “vastità di
argomentazioni, con interessi di natura lirica, paesaggistica, memoriale,
sociale, etica, filosofica e metafisica”. In effetti, abbiamo una sorta di summa
della produzione poetica dell’autore, che ha racchiuso in tre parti e
un’appendice finale (“Bestiario 2009”) un gran numero di liriche, frutto
evidentemente di una lunga e sincera passione per la scrittura.
Le poesie di Russo sono dirette, aperte al colloquio con
l’interlocutore, per lo più di breve respiro, specie nelle pagine iniziali del
volume, dove si trovano molte delle liriche più riuscite. La riflessione e il
sentimento si incontrano nei versi, portando in primo piano rimpianti, nostalgie
e speranze di un uomo che ama chiedersi il perché delle cose, senza reprimere la
voce del proprio cuore.
A Rodi Garganico il poeta ritorna volentieri, rievocando
persone e episodi che hanno segnato il suo passato, come attesta una lirica
intitolata “Il mio paese”, che inizia con questi versi: “Ora è soltanto il
rifugio/ delle mie memorie/ foderate di silenzio/ come i passi levigati di
mamma/ sul pavimento appena lavato/ come l’appassito petalo/ che scivola non
visto/ sulle mie rugose mani”.
L’essenzialità talvolta offre l’occasione per momenti
deliziosi, come in “Neve a Rodi”: “Non capivamo, noi piccoli,/ papà che
piangeva/ i limoni sotto la neve./ Ci sono tante età nella vita/ tante vite tra
bimbo e papà”. Più riflessivo e aperto al presente è “Sud chiama Nord”: “Vi
abbiamo portato/ la civiltà – e ne avete fatto buon uso/ - noi non più;/ ma
siamo fratelli, vero?”. Il suo punto di vista in questa lirica è quello di un
meridionale orgoglioso delle sue origini, della grande civiltà meridionale, che
ha dato linfa e ricchezza al Nord; ma oggi cosa ne è dell’antica fratellanza tra
italiani? Russo si augura, nell’ultimo verso, che resti ancora un patrimonio
intangibile, sacro, per così dire.
In altri momenti l’autore avrebbe dovuto, a nostro parere,
operare una cernita più severa nella scelta delle composizioni, ma nel complesso
i “Canti garganici” rappresentano una gradevole ed interessante offerta poetica,
una conferma della capacità della scrittura di dare voce all’eterna vicenda
umana, con le sue attese e le sue speranze, i suoi sogni e i suoi mesti
risvegli.