Il “viaggio” di Giuliani comincia, dunque, dalla pianura («uno spazio
aperto… proteso verso i lontani orizzonti, che fa avvertire, con le sue strade
rettilinee, il bisogno o la tentazione della fuga, della ricerca di qualcosa di
nuovo o di meglio»[2]),
ma ha un prologo emblematico nel saggio Carducci in provincia, dedicato
alla celebrazioni commemorative per la morte del grande poeta a San Severo.
Carducci è come un padre lontano, assente, ma vivo nell’animo dei suoi numerosi
cultori sanseveresi, nella loro consapevolezza di uomini gettati nel nuovo
secolo, in balia della modernità, privi di antenati illustri. L’importanza
culturale, prima ancora che letteraria, della figura di Carducci per l’Italia
umbertina è nota; ma è significativo come essa si imprima anche nei luoghi in
cui non ha mai concretamente soggiornato. È un modello che si ripete altre
volte, fino al caso clamoroso di Montale, che sembra non sia mai passato da
Foggia, se non in “sogno” (in Clizia a Foggia). Non basta evidentemente
il Viaggio elettorale di Francesco De Sanctis a risvegliare il sentimento
di una provincia ancora lontana da una propria identità letteraria, in grado di
partecipare al senso della patria. Diversamente da quanto avviene, invece, in
altri luoghi del Mezzogiorno, che tra Otto e Novecento, grazie in particolare ai
narratori (da Capuana a Verga alla Deledda), riconoscono, all’interno di un
orizzonte nazionale, anzi europeo, più articolato, il senso decisivo
dell’“appartenenza” a un luogo, a un territorio, a un Sud possibilmente lontano
dagli stereotipi turistici.
Ingeneroso non rievocare alcuni nomi, sia pure di scorcio, come Mario
Carli, Umberto Fraccacreta, Emanuele Italia, Pasquale Soccio, Nino Casiglio,
Mariateresa Di Lascia, Giuseppe Cassieri, che a diversa altezza nel Novecento, e
da differente angolature della propria storia personale, lasciano tracce
sensibili nella riacquisita coscienza letteraria di un luogo che non può vantare
nobili natali. Quel che muove scrittori e giornalisti a venire sull’“isola”
montuosa, apparentemente immobile nei secoli, il Gargano, attraversando una
regione – quella della Capitanata – che vede una serie di profonde
trasformazioni del tessuto socio-economico, sono alcuni temi precipui (dal
brigantaggio al paesaggio a Padre Pio) della imagerie del Mezzogiorno, e
in particolare il senso del “ritorno” che in alcuni autori, innesca riflessioni
all’ombra del “pensiero meridiano” (e a Franco Cassano Giuliani dedica un
capitolo in Occasioni letterarie pugliesi): "Pensiero meridiano è quel
pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva
interrompe gli integrismi della terra (in primis quello dell’economia e
dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo
finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con
l’altro diventa difficile e vera"[3].
Che cosa può sognare questa provincia? Innanzitutto una terza via (spiega
Giuliani), “mediterranea” in senso etimologico, fra il mare-oceano e la terra
continentale, ovvero fra una via che apre allo «sradicamento» e al «nichilismo»
e una che indica «la chiusura sulle proprie radici, l’imperialismo aggressivo,
il fondamentalismo». Il meridiano pugliese consiste nel senso di
relatività e decentramento, elasticità e pragmatismo, senso di identità e
curiosità e rispetto del diverso. Tanto basta a farci apprezzare pagine tanto
diverse, quali sono le amorose note paesistiche di Pasquale Soccio nel celebre
Gargano segreto, attentamente filtrate da modelli letterari, quasi nel
tentativo di colmare, nell’arco di qualche decennio (quanto passa fra la prima e
l’ultima edizione del volume, fra il 1965 e il 1999), la «scarsa letteratura»,
avrebbe osservato Piovene nel suo Viaggio in Italia, sullo splendido
promontorio. In effetti, la linea ferroviaria che all’inizio del Novecento
unisce la Capitanata alla rete in via di edificazione, facendo di Foggia uno
snodo importante, taglia via di netto il Gargano, e sembra che debba lasciarlo
ancora, per lungo tempo, lontano dai circuiti consueti del turismo di massa. E
lo stesso accadrà con la sistemazione, nella seconda metà del Secolo, della rete
autostradale: la scoperta del Gargano, da parte del turismo di massa, è solo
rimandata. Dunque, fino agli anni Sessanta, non di turisti occasionali, ma di
visitatori colti e attenti si deve parlare: le pagine di Beltramelli, Baldini,
Bacchelli, Alvaro, Piovene, Brandi, senza dire delle testimonianze, meno note
eppure di grande interesse, di Nicola Serena di Lapigio (Panorami garganici
1934) e di Kazimiera Alberti, scrittrice di origine polacca (Segreti di
Puglia, 1951), si dispongono come un’intensa cornice di voci intorno agli
ampi saggi degli scrittori ‘nativi’, cioè Michele Vocino, Alfredo Petrucci e
Pasquale Soccio, i quali restituiscono i paesaggi garganici all’incessante
percorso di una storia diversa, lontana da una modernità che rastrema
voracemente ogni antica consuetudine, ogni tradizione. In qualche modo
Gargano segreto di Soccio chiude, alla fine del secolo scorso, con i suoi
ripetuti e significativi aggiornamenti redazionali, l’immagine del promontorio
come in un “sogno”, anzi sembra che lo fissi a un sogno di scrittura che risente
ancora, a distanza di anni, dei «fermenti stilistici dei primi decenni del
secolo riassunti e cristallizzati nell’espressione “prosa d’arte”»[4],
e quindi di una bellezza interiore del paesaggio, recuperata con pazienza negli
angoli più remoti del “luogo”, strappati alla nuova incomprensibile lingua del
presente.
Il
viaggio non si conclude qui, ovviamente. Esso, piuttosto, pare rimandare alle
origini, e riportare alla memoria il testo che inaugura la “visione” del
Gargano, e forse il suo sogno di scrittura: dico Il Gargano di Antonio
Beltramelli (1879-1930), un libro oggi commovente, di cui Giuliani propone
l’edizione a distanza di quasi un secolo[5].
Giornalista infaticabile, curioso, ma anche umile, discreto, nel 1905
Beltramelli intraprende un viaggio nel Gargano. Allora il promontorio è una
regione dolce e ispida nello stesso tempo, spoglia e boscosa, montuosa e marina;
quasi affatto priva di strade e di alberghi, ma spontanea e cordiale per la
semplicità dei suoi abitanti; malarica intorno ai laghi di Lesina e Varano, ma
famosa per la bontà dei suoi frutti e, in particolare, fiera delle dimensioni
internazionali del commercio agrumario nella regione costiera, tra Rodi e Vieste[6];
una regione senza sviluppo né prospettive (disoccupazione, emigrazione,
denutrizione dei bambini), appartata in una silenziosa e misteriosa “sotto
storia” (per dirla con Pasolini) che fa da controcanto alla belle époque
del primo Novecento. Sotto l’umile povertà del Gargano trapela, agli occhi di
Beltramelli, una fede e una vitalità silenziosa, di cui Giuliani sottolinea
sfumature e ambivalenze. Beltramelli si accompagna fiducioso alle guide locali e
non ignora quel che è stato già detto o scritto sul Gargano, cercando una
mediazione tra diversi punti di vista.
Il paesaggio è un’avventura, e il viaggio un modo di leggere la vita
degli uomini che, insieme agli animali (fra questi un’attenzione particolare va
al maiale, caro ai bambini) e alle piante (individuate con una acrimonia
nomenclatoria, come avrebbe desiderato Pascoli, conterraneo del Beltramelli),
abitano questo paesaggio affatto nuovo. Non a caso il libro si apre con una
straordinaria descrizione del Tavoliere, colto al volo da un veicolo in corsa
(come in una scena di Ombre rosse: piena canicola, tutti dormono nella
‘corriera’, ma il nostro viaggiatore registra attentamente sul quaderno le sue
impressioni), che ostenta un’ambizione sontuosa di ricercatezza, alla D’Annunzio
per intenderci (che agli inizi del Novecento era un modello di stile
giornalistico), e comunque non rinunciano a risolvere scene e vedute in un
enigmatico ardore di colpe ereditarie, folli presenze, leggende ancora fresche:
così, intorno a Foggia, «pochi alberi tisici sorgono qua e là sopra le case
basse, simili a torri monche e il sole l’abbraccia, l’inonda, la stringe tutta
nella sua raggiera di fuoco».
Ma a trasformare questo libro di viaggio in un libro ancora in viaggio
verso il presente, così diverso e spesso indifferente, è proprio la meditazione
sul tempo trascorso in quelle mute esistenze mai esaltate dalla storia, o in
quei paesaggi mai sfiorati, per tanti secoli, dall’arte e dalla poesia. Sono
molte le pagine a proposito, di grande suggestione narrativa, che mi piacerebbe
ricordare. Senz’altro colpirà l’attenzione del lettore quella in cui Beltramelli
descrive la sua visita al convento dei Cappuccini di San Giovanni Rotondo, prima
dell’arrivo di un giovane Francesco Forgione. Scrive Beltramelli: "Il convento
sorge in un breve pianoro prossimo alla cresta dei monti; è tutto cinto di
cipressi e di roveti. Il piazzale è deserto. Sotto due querce s’innalza, sopra
una base a tre gradi, un’antica croce tutta nera nell’ombra; accesa a pena,
lungo la sagoma, dalle lontane luminosità del mare. È un grande silenzio, una
pace che invade e suade il cuore a raccoglimento; vicino e lontano, tutto è
deserto intorno, tutto riposa quasi converso alla mistica calma di questo
eremitaggio. Due cavalli brucano al limite del piazzale, sotto le querce; paiono
grandi, scolpiti sui cieli […] Tutto è lindo e bianco; non v’è traccia del
tempo; un pallido candore è su queste vecchie mura. (p. 74)
Il saggio è oggi incluso nel volume Piccole patrie (Stilo, Bari, 2011, pp. 55-61)
[1]
Tutti editi presso le Edizioni del Rosone, nella collana diretta da
Benito Mundi, “Testimonianze”.
[2]
F. Giuliani, Viaggi letterari nella pianura, introduzione di G.
Giuliani, prefazione di D. Cofano, Edizioni del Rosone, Foggia 2002, p.
73.
[3]
F. Cassano, cit. in F. Giuliani, Occasioni letterarie pugliesi,
Edizioni del Rosone, Foggia
2004, p. 278.
[4]
C. Siani, Pasquale Soccio, in T. Rauzino – G. Talamo – C. Siani,
Figure egemoni del Novecento. Del Giudice, Maratea, Soccio,
Schena, Brindisi 2006, p. 86.
[5]
A. Beltramelli, Il Gargano, a cura di F. Giuliani, introduzione
di B. Mundi, Edizioni del Rosone, Foggia 2006.
[6]
Si veda S. D’Amaro, Il nostro Adriatico. Dall’una all’altra sponda,
Schena Editore, Fasano 2006.