DUE POETI IN DIALETTO DEL GARGANO: SERRICCHIO E PINTO
La poesia in vernacolo ha in Italia, come si sa, un’antica
tradizione, rinverdita negli ultimi decenni da un ritorno al locale che spesso
è, nello stesso tempo, rifiuto della crescente globalizzazione. Il dialetto
offre una lingua nuova ed insieme antica, da riprendere e da plasmare.
Non è certo un caso se gli autori vernacolari aumentano sempre
più, in sintonia con gli incontri pubblici e i festival della letteratura, che
di recente hanno visto la presenza in Capitanata del nome di maggiore richiamo
nazionale, Franco Loi, che da sempre compone in milanese.
Loi ha firmato la prefazione di un bel volume di Cristanziano
Serricchio, intitolato La prigione del sole (Marietti, Roma, pp. 114,
euro 15), che affianca a liriche in italiano altre composte nel dialetto della
città nativa, ossia Monte Sant’Angelo.
Già questo dato è fortemente significativo. Serricchio vive da
molto tempo a Manfredonia, ma la lingua succhiata con il latte è quella della
celebre località garganica, che trova una straordinaria resa letteraria.
Serricchio è un nome che non ha bisogno di molte presentazioni, vista la sua lunga fedeltà alla poesia e gli autorevoli giudizi accumulati dal 1950 ad oggi. Sul versante più propriamente dialettale, dobbiamo ricordare il precedente rappresentato dal libro Lu curle, ossia “La trottola”, del 1997.
Nella silloge La prigione del sole la componente vernacolare occupa la seconda delle tre sezioni del libro, intitolata La cima, e il lettore non fatica molto a riconoscere la perfetta consonanza di questa parte con le altre due. I temi sono gli stessi, anche se cambia la lingua, e simili sono anche gli esiti artistici. Siamo di fronte ad un uso estremamente consapevole ed ispirato del dialetto, che riesce a rendere melodiosi dei suoni talvolta in sé aspri, ma sempre scelti con cura, uno per uno, come lo stesso Serricchio lascia intendere in Propete quedda. I termini dell’infanzia vengono passati in rassegna, alla ricerca del vocabolo insieme nuovo e antico, succoso, lontano dalle parole “c’àlete acciaciònnene”, ossia che gli altri mettono insieme frettolosamente e banalmente. Il senso dell’ineluttabile passare del tempo si riflette in visioni naturalistiche di rara efficacia, terse e insieme soffuse di malinconia, limpide come un tramonto luminoso ma effimero. Ritroviamo in queste liriche spesso il ricordo dell’amata moglie Delia, protagonista di tante composizioni in lingua italiana, come in Li mmaricule, ossia “Le more”. Qui le spine del rovo sono una perfetta metafora della condizione esistenziale del poeta, che non può fare a meno di ricordare le more del passato, assaporate un tempo insieme alla donna amata, nella pienezza del sentimento.
Aleggia anche il ricordo del padre, come in Quedda croce.
E’ lui l’uomo che portò fin sulla vetta di un monte garganico una pesante croce,
ancor oggi visibile, procurandosi la rottura di tre costole. Lo stesso genitore
è poi al centro di una lirica breve ma incantevole, come A patreme, che
vale la pena di riportare integralmente: “A cciavallugghie a tè/ annanza allu
castidde/ vagnone ce sbalanghéve/ iritte all’ucchie/ lu sole ca traséve/ daintre
all’arche” (A cavalluccio a te/ innanzi al castello/ bambino si spalancava/
dritto negli occhi/ il sole ch’entrava/ dentro l’arco”). E’ un attimo di grazia
strappato alla nebbia del tempo e salvato grazie all’incanto della poesia, qui
più che mai vista come una fata buona e gentile.
In La prigione del sole ci sono molti momenti di
grande bellezza, come in Li sckarde de buttigghie, ossia i montaliani
cocci di bottiglia, e Li mmennele, le mandorle del nostro Gargano.
L’ultima lirica della sezione è invece La pagghionneche, ossia
“L’averla”, un uccello che evoca ancora una volta il pensiero di Delia. L’amore
non muore, resta nella vita e nei versi, come tutto ciò che ci appartiene
profondamente.
Rimanendo nell’ambito della poesia in vernacolo, cogliamo
l’occasione per parlare di un altro autore, Franco Pinto, che ha da poco
pubblicato, a cura di Mariantonietta Di Sabato, una silloge intitolata Nvrà
vigghje e sunne, ossia “Tra veglia e sonno” (Edizioni Cofine, Roma, pp. 54,
euro 7).
Pinto è un ebanista, che vive a Manfredonia, città nella quale
è nato nel 1943. L’adozione del dialetto sipontino è una costante in lui, che ha
già dato alle stampe tre sillogi di versi, dal 1985 in poi, e due volumi di
commedie. Mariantonietta Di Sabato, che è un’attenta studiosa di letteratura,
sottolinea nella sua nota introduttiva la profondità della vena poetica di Pinto,
che si ripresenta al pubblico dei lettori a distanza di 5 anni dalla precedente
raccolta. Inoltre, la stessa curatrice sottolinea il costante ricorso alla
metafora, al parlare allusivo, che il poeta utilizza sin dalla Premessa, dando
conto del titolo del volume.
Pinto usa il dialetto con grande naturalezza, senza la minima
traccia di banalità e di concessioni municipalistiche. La nota che caratterizza
questi versi è senz’altro il dialogo con un interlocutore femminile, che assume
le vesti della poesia, ma anche della morte e della vita, come lo stesso autore
lascia intendere in apertura.
C’è un senso di amarezza, di fronte al diradarsi dei giorni,
che si ritrova in varie liriche, come A finestrèlle, che termina con
questi versi: “oramèje pe me c’ji chiùse a finestrèlle/ ca me putòve de’ luce e
calòre” (“ormai per me si è chiusa la finestrella/ che mi poteva dare luce e
calore”). Ma in Pinto c’è anche la forte necessità di esprimersi, di dare sfogo
ad una componente essenziale della propria vita. Tra lui e la poesia c’è un
rapporto non di rado tormentato, che richiama quella tra uomo e donna,
allargandosi fino ad includere tutta l’esistenza. Le liriche sono per lo più
brevi e lasciano un sapore che richiama in noi quello di una celebre poesia di
Guido Cavalcanti, Per ch’i’ no spero di tornar giammai.
Di certo quella di Pinto è una sincera vocazione poetica, che
si tradurrà presto in altri libri, come anticipa la curatrice Di Sabato.