L'ULTIMA RACOLTA DI MARCELLO ARIANO

"ALLA CLESSIDRA C'E' RIMEDIO"

 

E’ appena stato pubblicato l’ultimo lavoro poetico di Marcello Ariano, intitolato “Alla clessidra c’è rimedio” (Edizioni del Rosone, Foggia, pp. 84, euro 9).

L’autore, nato a Torremaggiore, ma da tempo residente a Foggia, ha pubblicato vari libri, sia di argomento storico che, per l’appunto, poetico. Nella prima categoria vanno segnalati almeno gli studi su Araldo di Crollalanza, Gaetano Postiglione e Rosario Labadessa, che riconducono ad un periodo, la prima parte del Novecento, e segnatamente il Ventennio fascista, al quale Ariano ha riservato molte attenzioni, mettendo a frutto la lezione di De Felice e della sua scuola.

Come poeta, invece, è alla quarta raccolta, dopo “Minuta di versi”, del 1979, “Terra dove”, del 1993, e “Tempo di sabbia fine”, del 1999. Il titolo dell’ultima silloge ci aiuta a comprendere l’importanza del tema del tempo, che è in primissimo piano anche adesso. Non a caso la copertina di “Alla clessidra c’è rimedio” riporta una riuscita composizione grafica, nella quale le parole del titolo riproducono, giocando con i caratteri, la forma di una clessidra, trasparente simbolo del trascorrere della vita, attimo dopo attimo, granello dopo granello.

E’ un libro ben riuscito, che non nasconde una vena di confidente fiducia nella vita e nel futuro, puntando sulla possibilità di godere ancora dei momenti straordinari, senza rifugiarsi sterilmente nei tortuosi meandri del passato. Intendiamoci, la memoria personale è sempre viva ed operante e guida Ariano a ritroso, ritrovando il sapore della giovinezza, degli eventi rimasti indelebili nella memoria, ma non c’è struggimento, non c’è sconsolata elegia.

In ogni caso, la prospettiva poetica è rivolta verso il futuro, come rivela esplicitamente l’ultima lirica del libro, “Chiamare bella stagione”, che termina con questa strofa: “Chiamare bella stagione/ i giorni che il tempo/ ancora non palesa/ infilare le dita nelle ferite/ sentirsi vivi/ questo rimane/ e provare con sillabari/ a comporre nel mondo/ nostre minute vicende”.

Una silloge, quella di Ariano, che si propone, insomma, di invertire la china della clessidra valorizzando i granelli di sabbia rimasti, invitando a “Non portare dai rigattieri/ in botteghe buie e sudice/ quel sentimento di vita/ che in tempo di consuntivi/ credi già opaco e logoro”.

La poesia del Nostro è aperta al dialogo, bendisposta verso l’interlocutore. Le liriche, nelle quali c’è un costante ricorso agli “scalini”, con versi che si spezzano e lasciano ampi spazi bianchi, utilizzano una lingua semplice, che si apre anche al parlato, ai termini della conversazione quotidiana; ma non mancano, al contrario, momenti più rarefatti ed evocativi, che ci sembrano, poi, quelli più alti dal punto di vista artistico. Un gusto particolarmente felice Ariano lo rivela nell’attenzione al paesaggio, nelle folgoranti descrizioni di realtà geografiche che riconducono alla sua Puglia. Pensiamo, ad esempio, a “Masserie daune” (“ Nel focolare desolato/ l’ultima cenere/ riflessi ancora rosa/ passaggio d’immigrati/ in fuga”) e a “Le Puglie” (“Gargano. Carrube nere./ Sotto il monte verde/ dorme un gigante/ dai riccioli di pietra”).

In questa raccolta, insomma, dal tessuto lirico e concettuale unitario, Marcello Ariano conferma le sue indubbie qualità di poeta, mettendo a frutto quell’energia pacata, ma non meno fluente e vigorosa, che è propria della fase della sua vita. E’ una promessa per ulteriori lavori, ai quali, immaginiamo, starà già attendendo.

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