GIOVANNI PAPINI E IL ROMANZO GOG

 

 

Molte volte capita di leggere dei libri che, pur avendo solo pochi anni di vita, sono invecchiati a ritmo accelerato; è raro, invece, trovare dei libri che migliorano con il tempo, proprio come si dice proverbialmente del buon vino. A quest’ultima categoria appartiene senza dubbio Gog, di Giovanni Papini, un’opera in prosa da poco riproposta ai lettori (pp. 248, 4,90 euro, La Biblioteca di “Libero”), oggetto di giudizi spesso discordanti, che per noi è un lavoro di certo riuscito.

Papini (1881-1956) è un personaggio che continua a richiamare le attenzioni dei critici e dei lettori, al pari di Prezzolini e di altri protagonisti di una stagione culturale che ha segnato la prima metà del nostro secolo. Individualista, estroverso, pungente, fuori dagli schemi, prima ateo poi convertito al cattolicesimo, instancabile, ha dato alle stampe numerosi volumi, tra cui le pungenti Stroncature, nel 1916, e la Storia di Cristo, nel 1921. La sua carriera continuò fino agli anni Cinquanta, malgrado i grandi cambiamenti verificatisi.

Gog appare per la prima volta nel 1931, per i tipi della fiorentina Vallecchi, e già questa data è molto significativa. Papini fu vicino al fascismo e qualche anno dopo entrò anche nell’Accademia d’Italia, ma la sua adesione fu intelligente e creativa. Il suo sguardo acuto e curioso si distende in lontananza, pur optando per un cattolicesimo amante della provincia ed ostile alle utopie cosmopolitiche e ideologiche.

Ma entriamo più nello specifico. Gog è formato dalle pagine di diario del personaggio eponimo, precedute da un brano, Conoscenza con Gog, in cui Papini immagina di aver conosciuto quest’uomo in un manicomio privato.

Gog, diminutivo di Goggins, è nato in un’isola delle Hawai da madre indigena e da un padre sconosciuto, ma di razza bianca. Povero, riesce, però, con molti sacrifici a diventare miliardario; a quel punto, decide di lasciare tutto, girando per il mondo alla ricerca di esperienze e sensazioni straordinarie e particolari.

Proprio il suo inquieto vagare per il mondo forma il corpo dell’opera, con i suoi 70 apologhi, come li chiama Renato Bertacchini, che ha firmato l’Introduzione (la Prefazione, invece, è stata affidato ad un intellettuale di sinistra, uno dei professori della Rai, Enzo Siciliano). Papini immagina che l’uomo si sia in seguito ammalato, finendo in manicomio, dove consegna allo scrittore delle pagine sparse che, ordinate, vengono date alle stampe. 

Gog è un personaggio senza punti di riferimento morale, curioso ed inquieto, stravagante fino alla crudeltà e al cinismo, che cerca ovunque una risposta che non arriva. Con i suoi soldi riesce ad aprirsi molte porte, trovandosi a colloquio con personaggi come Lenin, Freud, Edison ed Einstein. Il primo, in particolare, appare un personaggio machiavelliano, che si compiace di ricordare l’importanza della forza (“Gli uomini, signor Gog, son dei selvaggi paurosi che devon esse dominati da un selvaggio senza scrupoli - come son io”) e che evidenzia gli errori di Marx, visto che la rivoluzione è scoppiata in una nazione senza borghesia e senza industrie.

E’ una visione decisamente riduttiva e scettica, che si affianca ad un gusto del particolare e del paradosso che anima molte pagine riuscite. Davanti a Gog sfilano i tipi più strani, dal professore che vuole insegnare all’università “ftiriologia”, ossia una disciplina che si occupa a tutto campo dei pidocchi, al “cannibale pentito”, che diventato vecchio mangia solo legumi e frutta.

Ogni apologo è una sorpresa, fornisce un colpo di scena, dalla pagina con caratteri cinesi, praticamente illegibile per noi (“Profondità cinese”) alla descrizione di esperienze paradossali, come quando Gog prova letteralmente a “nuotare nell’oro”.

Gog, si è capito, non è un personaggio positivo, e come tale lo considera esplicitamente Papini, condannandolo come un “simbolo della falsa e bestiale…civiltà cosmopolita”, senz’anima e senza ancoraggi morali. Non a caso l’ultimo apologo del libro, Il pane della bambina, descrive l’incontro, in una campagna dell’Aretino, del protagonista, che si finge povero, con una bimba che è realmente in miseria ma che non esita a porgergli un pezzo del suo pane nero, con un gesto di istintiva generosità. Gog viene così sfiorato da un dubbio: “Che sia questo il vero cibo dell’uomo? e questa la vera vita?”.

Un finale molto significativo, ma non ingombrante, che a distanza di alcuni decenni sembra trasformarsi, in noi lettori, senza sforzo, in una condanna della civiltà globalizzata e disumana dei nostri giorni e dei nostri incubi futuri. Un’attualizzazione che rende l’opera godibilissima in sé, per i suoi continui fuochi d’artificio della fantasia, ma anche per quanto riesce ad evocare in noi.

La critica della modernità espressa da Papini, insomma, è ancor oggi vivissima, con la sua opzione per un mondo che forse non può più essere quello ristretto caro a Papini, ma che comunque non può fare a meno di alcuni tradizionali punti di riferimento.

In caso contrario, la pazzia di Gog sarà sempre più quella di tutti noi.

 

Giovanni Papini, Gog, La Biblioteca di Libero, 2003, pp. 248, 4,90 euro

 

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