LA PRIMA VOLTA DEGLI UOMINI SULL'EVEREST
Il dilemma è antico: perché gli uomini sono così attratti dalle montagne, tanto da rischiare la vita per scalarle? La rosa delle risposte date nel corso dei secoli è amplissima e si passa da quelle più speculative e problematiche a quelle più banali. Sembra che George Mallory abbia risposto a chi gli chiedeva perché volesse salire sull’Everest in modo semplicissimo: “Perché è lì”.
Proprio alla montagna più alta del nostro pianeta è dedicato il libro di Tenzing Norgay Primi sull’Everest, scritto in collaborazione con James Ramsey Ullman (Piemme, 2004, pag. 300, euro 12,50), da poco giunto in libreria in una nuova edizione, a distanza di un anno dalla precedente, sempre per i tipi della casa editrice di Casale Monferrato.
Ma chi è Tenzing Norgay? Per gli appassionati di alpinismo è un nome conosciutissimo, dal momento che insieme al neozelandese Edmund Hillary è riuscito a violare per la prima volta in assoluto la vetta del mondo, ottenendo un risultato straordinario. Era il 1953 e l’uomo segnava un altro punto a suo favore, nella perenne sfida con la natura e con i limiti che essa pone.
Norgay è un personaggio singolare ed interessantissimo. Nato nel 1914 nel Tibet, come ci racconta lui stesso, un po’ nepalese, un po’ indiano, ha conosciuto la povertà e gli stenti sin da piccolo, maturando un sogno che doveva concretizzarsi a 39 anni, dopo vari tentativi. In apparenza una chimera come tante, ma Norgay, aiutato da una volontà di ferro e dalle circostanze, è riuscito ad esserci in quel giorno del 29 maggio 1953, quando l’ultimo tratto di montagna si arrende alla tenacia dei due alpinisti, appartenenti ad una spedizione inglese.
Il libro, dunque, apparso originariamente nel 1955, in lingua inglese, è il resoconto di un uomo che è riconoscente verso la vita e verso Dio per aver centrato l’obiettivo di sempre. Un riconoscimento che si estende, com’è ovvio, anche e soprattutto all’Everest, il colosso che ha richiesto il tributo di sangue di decine e decine di scalatori, una serie di disgrazie che ha attraversato il secolo scorso e che non è destinata ad interrompersi. Dal 1922 ad oggi, si calcola che siano almeno 172 gli scalatori che non sono tornati a valle e tra questi i più noti sono senz’altro Mallory ed Irvine, che nel 1924 erano giunti a poco più di 200 metri dalla vetta, con mezzi rudimentali.
Il corpo di Mallory, ritrovato nel 1999 ancora in zona, pressoché intatto, ha rinvigorito la leggenda di quella spedizione, ben nota anche a Norgay.
L’aspetto più incredibile è che ancora nel 1996 ci sono state 15 vittime, frutto di disgrazie ma anche di inesperienza, superficialità. Oggi l’Everest non è più inviolato, ma è ancora una montagna che non perdona, disseminata di vittime che restano sui suoi fianchi, mancando spesso la possibilità di riportare indietro i cadaveri.
Al confronto, i tempi di Norgay sono epici. Egli è uno sherpa, che parla una lingua che non ha una forma scritta, tanto da creare seri dubbi persino sulla grafia del suo nome e del suo cognome; non compie studi regolari, è analfabeta, e questo rende necessaria la collaborazione di Ullman, un romanziere americano esperto in argomenti di montagna, che ascolta con attenzione la cronaca di un sogno che diventa realtà.
Il libro parte ab ovo, dalle radici culturali orientali di Norgay, con delle pagine singolari, avvicinandosi poi sempre più al cuore della narrazione. Per l’autore e la sua gente, l’Everest, chiamato così nell’Ottocento in onore del colonnello britannico e topografo delle Indie sir George Everest, ha un altro nome, è il Chomolungma, è “la Montagna così alta che nessun uccello può sorvolarla”, come ripeteva la madre di Tenzing, con una libera ma suggestiva interpretazione.
La montagna, insomma, è nel suo sangue e sul colosso di pietra si avventura più volte. Nel 1952, con una spedizione svizzera, giunge a pochi passi dalla vetta, ma per convenzione un’impresa alpinistica è riuscita quando si riesce a ritornare indietro vivi, e così, con suo sommo dispiacere, lo sherpa deve rinunciare per due volte nello stesso anno.
Ma è solo un arrivederci e la fotografia che lo immortala, riprodotta anche sulla copertina del libro della Piemme, riproduce proprio Norgay a quota 8850 metri. L’ultimo tratto di montagna il tibetano lo percorre insieme con uno spilungone neozelandese, Edmund Hillary. I due procedono insieme, in cordata, com’era stato stabilito, approfittando anche del fallimento di altri scalatori. Quando tocca a loro, il tempo è favorevole, la forza nel corpo ancora sufficiente, e così Hillary può tirare fuori la sua macchina fotografica, ritraendo Norgay sulla vetta del mondo.
Il tibetano non manca di far riferimento anche alle molte polemiche che accompagnarono il loro ritorno. Qualcuno volle buttarla in politica, qualcuno cercò dei risvolti nazionalistici o razzistici. Ma, soprattutto, in molti si chiesero: chi aveva posto per primo il piede sulla vetta? Norgay e Hillary firmarono un documento ufficiale in cui riconobbero di “aver raggiunto la vetta quasi insieme”, ma il “quasi” alimentò ancor più i dubbi e le polemiche.
Essendo una cordata a due, qualcuno doveva pur mettere il piede prima dell’altro, ed è fin troppo chiaro che il merito non può essere attribuito diviso. In ogni caso, Norgay non ha difficoltà a riconoscere che fu Hillary a mettere il piede sull’Everest qualche secondo prima di lui, anche se non volle essere immortalato dall’obiettivo, come invece è accaduto con Norgay.
Il libro non manca anche di varie pagine dedicate al “dopo impresa”, alla prosa che segue alla poesia dell’atto irripetibile. La vita di Norgay, scomparso nel 1986, cambiò radicalmente, tra viaggi, interviste, inviti ed incontri, ma lui non si è montato la testa, continuando ad interessarsi di alpinismo e a rimanere un uomo semplice, proprio come vuole mostrarsi nel suo libro. La stima che riuscì a conservare fino alla fine fu tale, che il suo funerale fu seguito da un corteo lungo un chilometro.
Norgay era un uomo giusto e nella postfazione del suo libro, intitilata Il gentiluomo del Chomolungma, lo scrittore Ullman garantisce per lui, chiudendo una storia di sicuro interesse.
Per scalare l’Everest, un uomo dell’Est, Norgay, e uno dell’Ovest, Hillary, si sono ritrovati insieme, cogliendo il successo: un simbolo che dimostra l’importanza della collaborazione, a tutti i livelli.