QUEL GIOVANE DI DUEMILA ANNI FA       

MICHELE COCO TRADUCE CATULLO          

   

     Tra i tanti pregiudizi che circondano le letterature classiche, quello forse più insidioso e contagioso pone l’accento sulla loro presunta inutilità. Ebbene, tutti quelli che ritengono morte le lettere greche e latine farebbero bene a leggere questo libro: ci riferiamo ai “Carmina” di Catullo tradotti da Michele Coco, per le Edizioni Filocalia di Manduria (pp. 213, euro 18).

     Coco, nato e residente a San Marco in Lamis, sul Gargano, è stato a lungo docente e poi preside liceale. Collaboratore di riviste prestigiose, da “Poesia” a “Otto-Novecento”, ha al suo attivo molte opere, sia nell’ambito saggistico che creativo, a conferma della sua operosità.

     Passando in rassegna l’elenco delle sue pubblicazioni, spicca subito il suo vivo amore per la traduzione poetica. Egli si è occupato, tra l’altro, dei lirici greci, da Alceo a Saffo, e degli autori dell’Antologia Palatina. Un particolare affetto lo nutre per il mondo alessandrino, che ritiene, a giusta ragione, di strettissima attualità, e per dimostrarlo ha pubblicato l’anno scorso una propria silloge, “Galleria minima”, in cui circola la stessa aura, lieve e pregnante, tipica di quel mondo poetico.           

     Ora Coco si ripresenta al pubblico dei lettori con questo lavoro che ha tutte le carte in regola per piacere e convincere, appagando il gusto estetico del semplice innamorato dei versi, ma anche gli scrupoli filologici dell’addetto ai lavori. Tra l’altro, a garantire della serietà dell’opera c’è la prefazione di Paolo Fedeli, uno tra i massimi studiosi di letteratura latina in circolazione, da tanti anni docente nell’Ateneo di Bari, che di Catullo è un grande esperto.

      Le tre pagine della sua introduzione riassumono, con chiarezza ed efficacia, i tantissimi problemi che si trova ad affrontare chiunque voglia andare oltre la semplice traduzione scolastica. Problemi da far tremare le vene e i polsi, per citare Dante, che non si possono eludere, e che solo superficialmente si possono ridurre nel dilemma tra la scelta della traduzione fedele o libera. Se tradurre, com’è noto, è sempre tradire un testo, bisogna farlo con originalità e insieme con aderenza allo spirito dell’opera, seguendo una strada spesso difficile, che richiede competenza e tenacia, quasi si trattasse di una scalata alpinistica.

     Michele Coco, va detto con chiarezza, ha saputo disimpegnarsi nel migliore dei modi, dando vita a traduzioni che sono anche, in modo più o meno evidente, attualizzazioni fedeli dell’opera.

      Metricamente, Coco sceglie l’endecasillabo, al quale si mantiene fedele in quasi tutte le liriche, con pochissime eccezioni, come ha ricordato lo stesso Fedeli, ed è un’opzione significativa, fatta nel nome della tradizione poetica italiana, che si confronta amorosamente con le sue origini, come in tanti autori del passato, senza rinunciare ad attingere degli esiti di piena modernità. In questa illustre e duttile misura del verso il traduttore riesce a calare la multiforme vena poetica di Catullo, poeta d’amore dolente ma anche scanzonato, patetico ma anche realistico, allievo dei greci e a sua volta maestro di tanti scrittori successivi.   

       Il volume presenta a fronte il testo originale del poeta di Verona e permette, a chi non ha dimenticato del tutto la madre dell’italiano, di verificare la felicità di certe scelte interpretative, che rendono il verso più scorrevole e diretto, porgendo in modo più esplicito un messaggio che talvolta sembra ostico per la diversità della lingua, ma che tale è solo in apparenza.

   

   

    In questo modo, la lettura può offrire delle scoperte piacevoli, illuminando, magari, delle reminiscenze liceali rimaste inerti e poco perspicue nella memoria, mentre ora, al contrario, rifulgono nella loro pregnanza.

    Si pensi, ad esempio, al secondo carme, quello dedicato al passero di Lesbia, che inizia in questo modo: “Tu basti, passerotto, a far la gioia/ di Lesbia mia, che si diverte e ride/ quando ti stringe al seno, e il dito t’offre/ nel volo, e i tuoi piccoli acuti assalti/ sollecita scherzosa”.

    Il terzo carme, invece, passa dai 18 versi dell’originale ai 16 della versione in italiano ed inizia con un endecasillabo dominato dal chiasmo: “Venere pianga e piangano gli Amori”.  

    Anche il celeberrimo “odi et amo” trova una resa originale. L’esametro e il pentametro latino lasciano spazio a tre endecasillabi, che suonano così: “Odio e amo, ma tu non sai capire/ come ciò avvenga. Nemmeno io lo so:/ sento che così è, e mi tormento”. Nella sterminata galleria di traduzioni del distico catulliano, questa di Coco trova un suo posto, interpretando nel modo appena visto il “forse mi chiedi come ciò sia possibile” del testo catulliano. Il dubbio espresso dal “fortasse” è superato dalla consapevolezza che Lesbia non sa capire la coesistenza dei due sentimenti antitetici eppure coesistenti. Da questo groviglio dell’anima si libera, limpida, la poesia.

    Ovviamente, si potrebbero delle osservazioni su ognuna delle scelte del traduttore, ben consapevole, da parte sua, di trovarsi di fronte ad un classico per antonomasia, che ha parlato di sentimenti e situazioni ancora oggi in gran parte attuali.         

    In apertura, tra l’altro, Coco dà anche conto dell’edizione critica seguita e dei luoghi in cui se ne discosta. Nel caso del carme 51, in particolare, d’accordo con il Thompson, Coco considera la strofa saffica finale, quella sugli effetti negativi dell’ozio, per intenderci, che fa tanto discutere gli studiosi, separata dal resto della composizione.    

     Nel complesso, il lavoro di Coco si pone nel solco di un’antica tradizione di vitale emulazione dei modelli, che attualizza il messaggio dell’umanesimo, ma soprattutto rende ancor più vicino al lettore questo giovane di duemila anni fa, con i suoi tormenti amorosi e l’esuberanza della sua età. Di tutto questo, insomma, dobbiamo essere grati a Michele Coco, che sulla base delle sue salde conoscenze linguistiche ha saputo lavorare di ispirazione e di cesello.

            

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