CAPITOLO SECONDO
DUE AUTENTICI GIOIELLI
I- MEZZOGIORNO ALPINO: GENESI E MIGLIORAMENTI
L’unico manoscritto di Mezzogiorno alpino, conservato nella Biblioteca carducciana[1] e recante il titolo iniziale di In montagna, che si legge sulla copertina dell’inserto, insieme alla data del 27 agosto 1895, fornisce alcune interessanti indicazioni, che meritano di essere approfondite per l’evidente riflesso che hanno in sede di commento critico.
In calce al foglio, il poeta specifica ulteriormente, scrivendo “27 ag.(osto) avanti le 11”. L’autore è dunque a Courmayeur, dove era arrivato, come al solito, in cerca di riposo, ma dove il lavoro lo riprende e Carducci si lascia afferrare, con un misto tra rassegnazione e piacere, anche per sfuggire la noia che deriva dall’inattività.
“Versi non ho tempo di farne né anche quassù”[2], scrive al diletto Severino Ferrari il 12 agosto, e il 13 confessa a Carlo Bevilacqua quello che il lettore comprende bene per altre vie: “Io sto bene, ma stare in quiete mi annoia. Bisognerebbe o mi movessi sempre o lavorassi sempre”[3]. Il 14, sempre da Courmayeur, comunica a Guido Biagi: “Io me ne sto qui a pie’ del Monte Bianco, nella gran valle ampia e bellissima d’Aosta; me ne sto tra la pioggia e il bel tempo, ma più di quella che di questo”[4].
La mattina del 27 agosto lo scenario che ha davanti è quello del Monte Bianco, anche se era reduce dal viaggio nella valle di Gressoney, di cui parleremo in seguito, a proposito de L’ostessa di Gaby.
Il Valgimigli si è chiesto se lo spettacolo che il poeta descrive ha per sfondo il Monte Bianco o il Monte Rosa[5]. Il paesaggio, in verità, non ha nulla di precisamente definito, di peculiare, è quello di una qualsiasi montagna dell’arco alpino, il che conferisce al lavoro una maggiore valenza simbolica.
Anche “l’alpi”, del resto, sono scritte con la minuscola, con una scelta tutt’altro che isolata, visto che si ritrova in varie altre composizioni. Giosuè, quando ha voluto essere più preciso, come in In riva al Lys, ha ricordato di trovarsi “A piè del monte la cui neve è rosa” (v. 1), con una chiara indicazione.
In ogni caso, ricordando la sua permanenza a Courmayeur, l’ode omonima del 1889 e anche la forza dell’aggettivo “candenti”, che si trovava al primo verso nel manoscritto, il pensiero vola subito al Monte Bianco, e su queste conclusioni concordano un po’ tutti gli interpreti, fermo restando il valore che si può dare al dato.
L’inizio di una poesia costituisce sempre un momento delicato e Carducci aveva preso a scrivere: “Nel gran cerchio de l’alpi in su i candenti/ Letti del ghiaccio e su”. Si nota che egli ha maturato la sua idea ed ha in animo di dipingere con maestosa energia la scena dominata dal sole meridiano.
“Letti del ghiaccio” è però davvero “bruttissimo”[6], come ha notato Giovanni Ponte, autore di una densa analisi del bozzetto. Di qui il cambiamento che introduce al primo verso il termine “granito” (al posto di “candenti”), che resta nella redazione definitiva e che apparteneva al suo repertorio poetico, in quanto usato già, tra l’altro, in A Vittore Hugo (Rime nuove), a proposito dei Pirenei (“E l’ardor del granito di Pirene erto al sol”, v. 30), e in Alessandria (Odi barbare), in modo ancor più significativo (“cui stanno a guardia sotto il sol candente/ seicento sfingi nel granito argute” vv. 6-7).
L’aggettivo “candenti” viene pertanto spostato al secondo endecasillabo e passa a definire il nome “ghiacciai”, che prende il posto della infelice perifrasi, più immediato ed efficace, pur restando nella stessa sfera di significato. La cura rivolta verso la scelta dell’aggettivazione, nello sforzo di conferire maggiore forza all’espressione poetica (una costante nell’intero ciclo alpino, ma in generale in tutta l’opera di Carducci), che spicca nel verso 2 in “Squallido e scialbo”, appare ancora più netta nel terzo verso, che nel manoscritto è tutto formato da qualità riferite al mezzodì: “Puro intenso sereno ed infinito”.
Carducci cerca una sistemazione idonea, trasponendo l’ordine di “intenso” e “sereno” (ponendovi sopra i numeri 2 e 1), infine decide di eliminare il pleonastico “puro”, anticipando il verbo “Regna”, che nel manoscritto si trovava all’inizio del quarto endecasillabo.
Una scelta felice, così come quella di lasciare pressoché inalterata la struttura del verso che chiude la prima quartina, con il soggetto posto in posizione finale, a conclusione dell’ampio e solenne giro di immagini.
La seconda quartina si apre con una più netta variazione cromatica e l’autore si serve di un binomio arboreo, come già in altri casi; qui non ha dubbi nel propendere per “Pini ed abeti” (di questi ultimi abbiamo già registrato, nel quarto paragrafo del primo capitolo, la presenza in Il comune rustico; da notare che nella fretta il poeta scrive “abete” per “abeti”), che nello stesso ordine aveva qualche anno prima introdotto in Cadore (“e di borgate sparso nascose tra i pini e gli abeti”, v. 87)[7].
I versi 6, nel quale per far tornare i conti dell’endecasillabo occorre ricorrere ad una diastole, ossia allo spostamento in avanti dell'accento di “pènetra” in “penètra”, e 7 sono già sul manoscritto, così come si leggono nel testo definitivo.
L’ultimo endecasillabo suona così: “L’acqua che ignota tra i massi filtrò”. C’è, dunque, al posto di “tenue” l’aggettivo “ignota”; la successiva sostituzione è molto riuscita perché pone in evidenza il contrasto dominante nella poesia, ossia quello tra grandezza e piccolezza, tra l’immobile e sconfinato paesaggio montano nell’ora di punta e l’unico piccolo segno di vita, proprio per questo così rimarchevole.
In questa direzione va anche letto il passaggio da “massi” a “sassi”, da dei blocchi di pietra inerti e di ragguardevoli dimensioni, che si associano ad un’immagine statica, e dunque del tutto impoetica, ai più piccoli, delicati e lucidi sassi, come accarezzati dal sottile rivolo d’acqua e capaci di produrre un’eco argentina.
Oltre a “filtrò”, che non dovette convincerlo troppo, Carducci segnala due varianti alternative, “fluì” e “uscì”. Quest’ultima forma verbale è generica, inespressiva, mentre “fluì”, usato anche in altri contesti poetici del Nostro, al contrario del più raro filtrare, contiene l’idea del movimento, oltre che del passaggio tra le pietre, sfruttando a pieno la dolcezza della consonante liquida.
La revisione ha reso, nel complesso, ben più riuscito il finale del bozzetto e lo stesso cambio del titolo, da In montagna a quello definitivo, conferma il contrasto tra l’immenso scenario montano e il rivolo d’acqua.
Ancora, pertanto, un segno di miglioramento artistico, che trascina la poesia verso le vette più alte della produzione carducciana.
Ponte di Lillianes sul Lys
II- MEZZOGIORNO ALPINO: IL PICCOLO E IL GRANDE
Il bozzetto è formato da 8 endecasillabi, divisi in 2 quartine; in ognuna, i primi 3 versi sono piani, mentre l’ultimo è tronco, accrescendo la musicalità dell’insieme, come spesso si registra in Carducci e in altri poeti, ma senza esasperarla, come ad esempio nelle quartine di ottonari de La moglie del gigante e in quelle di endecasillabi de La mietitura del Turco, degli stessi anni e della stessa raccolta, che presentano due versi su quattro tronchi, con rime alternate.
In Mezzogiorno alpino le rime si configurano in modo particolare (lo schema è ABAC, BDDC), con una asimmetria che porta al risultato di legare sì le due quartine, ma con una certa libertà. Anche la scelta del verso lungo, rispetto al più breve settenario di una celeberrima poesia descrittiva come San Martino, attesta la volontà di conferire al quadro naturalistico un ritmo relativamente più lento, più attento a cogliere i diversi aspetti, racchiudendoli in una sintesi di breve respiro.
Avrà sicuramente influito l’intento di scolpire con più elementi e con più efficacia possibili il regno del mezzogiorno, nella prima quartina, dilatando il verso e creando un senso di attesa che si placa nella finale indicazione del soggetto, di colui che domina, ossia il mezzodì. Sono tre endecasillabi a maiore ed uno solo, il secondo, a minore, strettamente legati dall’unico soggetto.
L’immagine d’attacco, “Nel gran cerchio de l’alpi”, suggerisce subito l’idea di imponenza, rafforzata con efficacia dall’aggettivo, per quanto generico. Il precedente più chiaro è nella lirica Il liuto e la lira, di Odi barbare, composta non a caso a Courmayeur, nel 1889, anche se pensata a Roma. In essa ci imbattiamo in un diverso attributo accrescitivo, laddove si parla dell’”immenso/ circolo” (“qui dove l’Alpi de le virginee/ cime più al sole diffusa raggiano/ la bianca letizia da immenso/ circolo…”, vv. 65-68).
Significativo è il fatto, a completamento anche del discorso sviluppato nel quarto paragrafo del primo capitolo, che nella strofa successiva di questa barbara si trovi, immancabile, il corso d’acqua, rappresentato dalla Dora Baltea, che “cerula tra l’argento” (v. 68) scende a valle, presente anche in Courmayeur.
In Mezzogiorno alpino monte e acqua segnano gli estremi della poesia, in un accostamento che va oltre il semplice dato descrittivo e non conosce pertanto specificazioni.
I due versi iniziali si dividono in tre parti simili, con dei complementi di luogo caratterizzati da comuni elementi morfologici e fonetici. Una preposizione (rispettivamente Nel, su e su’) è seguita dall’allitterazione ruotante intorno al suono gutturale della g (gran, granito e ghiacciai). Nettissima, in particolare, è l’allitterazione del primo verso; ma anche nel quarto endecasillabo possiamo registrare lo stesso fenomeno (nel suo gran…).
In questo modo, nell’ambito della prima quartina, le preposizioni vengono a disporsi in una struttura a chiasmo; quelle poste in mezzo specificano due luoghi diversi della montagna, accomunati, però, dal dominio del mezzogiorno, che su di essi si esercita, contenendo due note cromatiche. Sia granito che ghiacciai sono accompagnati da aggettivi, due alquanti simili, nel primo caso, uno, nel secondo.
Il termine “granito” è usato in un’accezione lata, ad indicare sia la roccia omonima, che, in generale, come sottolineano gli aggettivi, tutte le parti della montagna desolate e pallide, ben diverse dal nitore abbagliante dei ghiacciai, con cui il vocabolo è in antitesi. Ne viene fuori l’immagine di un paesaggio grigiastro, che è “squallido”, ossia privo di vegetazione, e “scialbo”, dunque smorto, che non risalta agli occhi con nettezza. I due aggettivi non rappresentano, in ogni caso, una novità nella poesia carducciana.
Da notare l’enjambement che separa il sostantivo dagli aggettivi (“granito/ Squallido e scialbo”, vv. 1-2), i quali ultimi sono legati, oltre che da un significato non troppo differente, anche dalle allitterazioni, creando quasi un unicum, in quello che è il quinario di un endecasillabo a minore.
Una sottile e delicata trama musicale caratterizza in particolar modo la prima parte di Mezzogiorno alpino.
Al pallido si contrappone ora il felice aggettivo “candenti”, che potenzia le caratteristiche della luce del ghiacciaio; si tratta di un chiarore particolare, che abbaglia, che ferisce lo sguardo, obbligando gli occhi dopo un poco a staccarsi dallo spettacolo.
L’impronta classica del termine è nettissima, visto che deriva dal latino ed è stato usato più volte dai principali poeti, come Lucrezio, Virgilio e Orazio, ma forse il ricordo più vivo, al di fuori della sua produzione poetica, doveva essere quello del Paradiso dantesco (“Oh vero sfavillar del Santo Spiro!/ come si fece subito e candente/ a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!”, XIV, 76-78). L’autore della Divina Commedia, sia detto per inciso, ricorre più volte nelle liriche che ci apprestiamo ad esaminare.
Di sicuro, la vastità evocata da “ghiacciai” si unisce alla intensità e profondità visiva del latinismo, che Carducci preferisce a giusta ragione al meno espressivo ma più moderno candidi, che pure nella sua opera è più attestato.
In Courmayeur il poeta aveva parlato di “ermi ghiacciai” (v. 7), mentre in cielo “Blandi misteri a te su’ boschi d’abeti imminente/ la gelida luna diffonde” (vv. 5-6), con un’immagine diversa, ma altrettanto riuscita, che lascia spazio al vago, all’indeterminato.
Quanto al terzo verso, formato, lo ricordiamo, nel manoscritto di In montagna, esclusivamente da qualità del mezzogiorno, esso spezza l’andamento della quartina. Dopo il verbo, posto in posizione di apertura, l’endecasillabo si distende con un ritmo lentissimo, come sospeso nel tempo, segnato da tre diversi aggettivi, “sereno intenso ed infinito”, tutti riferiti allo stesso termine.
Il primo è quello meno pregnante, che però va integrato con la coppia successiva, che porta l’espressione ad un grado superlativo; non a caso i due aggettivi sono uniti da una netta allitterazione iniziale, che continua anche nei suoni interni e richiama per analogia il legame tra “Squallido” e “scialbo” (intenso e infinito).
Se il cielo dell’ora meridiana è “sereno”, dunque privo di nubi e signore incontrastato, “intenso” forza il significato nella direzione della qualità, suggerendo la potenza di quel sole, la densa purezza dell’atmosfera, carica di luminosità, mentre “infinito” va in direzione della quantità, della vastità, del dominio senza fine, fin dove l’occhio riesce a giungere, e anche oltre, se fosse possibile ergersi per scorgere.
La linea dell’orizzonte è un limite meramente umano, ma non appartiene al mezzodì.
In un interessante squarcio paesaggistico compreso nelle quartine della celebre poesia Il canto dell’Amore, di cui forse il poeta si ricordò, troviamo il primo dei due attributi, mentre al posto di “infinito” c’è il molto simile “immenso”: “E il sol nel radïante azzurro immenso/ Fin de gli Abruzzi al biancheggiar lontano/ Folgora, e con desio d’amor più intenso/ Ride a’ monti de l’Umbria e al verde piano” (vv. 37-40).
Nel quarto verso di Mezzogiorno alpino, invece, il fulcro del potenziamento espressivo è costituito da un aggettivo semplice, come “grande”, e per giunta usato già nel verso d’attacco, con una voluta ripetizione. Il “grande silenzio” evoca la profondità e la sospensione dell’attimo, oltre alla sua estensione spaziale, riassume, insomma, il senso di “intenso” e di “infinito”, con una naturalezza ed una immediatezza che si comunicano in presa diretta al lettore.
Non a caso si tratta di un verso esaltato da molti interpreti, come il Valgimigli (“uno di quei divini versi che bastano da soli a creare una poesia”[8]) e il Banfi (“verso stupendo, per quel profondo sentimento panico che permea quell’immenso silenzio della natura tutta”[9]).
Parole che sottoscriviamo e che denotano un entusiasmo giustificato, di fronte ad una scena riempita da presenze familiari, ma come riscoperte e riproposte dal poeta con essenzialità e potenza. Le cose sono lì, disegnate senza complicazioni intellettualistiche e senza deformanti brividi di ipersensibilità decadentistica, e in questo modo donate al lettore.
Il “mezzodì” richiama evidentemente il finale de Il comune rustico, “Brillando su gli abeti il mezzodì” (v. 36), e gli stessi abeti in Mezzogiorno alpino compaiono al verso 5; ma nella poesia di Rime nuove si tratta soprattutto di una notazione naturalistica (ovviamente di grandissimo effetto artistico), che si ricollega ad altre presenti nel tessuto poetico, e non rinvia all’immobilità, alla stasi dell’ora, anzi, le giovenche “vedean passare il piccolo senato” (v. 35), formato da uomini vigorosi come appunto il sole meridiano.
Nel bozzetto di Rime e ritmi tutto è fermo, è l’ora dell’assoluta quiete, interdetta agli uomini, specie in questo squarcio di natura montana, e il verso tronco riecheggia armoniosamente e libero, ponendo fine al primo, fondamentale momento.
La seconda quartina è divisa in due parti, con la prima, rappresentata dall’immagine degli alberi immobili, che gradua il passaggio dal grande al piccolo, dall’immensità del mezzogiorno all’esiguità del rivolo d’acqua. In questo modo, la coesione e l’organicità di tutte le sezioni della poesia risultano evidenti.
I soggetti, “Pini ed abeti”, a differenza di “mezzodì”, sono posti in apertura e questa coppia di alberi cara al Carducci introduce una nuova nota cromatica, con quel verde e quel marrone che si incontrano e si fondono con la luminosità dei bagliori del sole.
L’aria è immobile, e per evidenziarlo il poeta riprende il letterario aura (“senza aura di venti”, v. 5), spesso usato nei suoi versi, compresi quelli degli idilli alpini (da Esequie della guida E. R. all’Elegia del monte Spluga e a Sant’Abbondio, dove troviamo la delicata immagine del fumo mosso “Da lieve aura”, v. 7), oltre che in tutta la tradizione aulica italiana; eppure gli alberi sembrano come ergersi, levarsi, disporsi nel modo migliore per godere dell’abbraccio accecante del sole, che da potente signore li pervade fin nelle loro più intime fibre, avvolgendoli. Si tratta di una fusione completa e come desiderata dagli alberi.
E’ questa l’immagine che concede relativamente di più all’immaginazione, alla magia dell’ora, al centro dei miti e delle superstizioni degli antichi, ma anche delle fasce popolari in tempi più recenti, evidenziando sia la stasi che la vitalità della natura, la sua forza impressionante. Di qui la presenza di un verbo di movimento, come “Si drizzano” (v. 6), che si affianca al successivo “penètra” con grandissima naturalezza e che si comprende più facilmente pensando ad una visuale dal basso da parte dell’io poetante.
In tal modo, dunque, questo verbo svolge una sua precisa funzione, senza peraltro nascondere l’eco dantesco di una celebre similitudine dell’Inferno (“Quali fioretti dal notturno gelo/ chinati e chiusi, poi che l’ sol li ‘mbianca,/ si drizzan tutti aperti in loro stelo/…”, canto II, vv. 127-29).
La necessità di assicurare la rima con “cetra” (v. 7) porta Carducci a spostare in avanti l’accento della voce del verbo penetrare, con una diastole di repertorio, malgrado l’apparenza, visto che ha dietro di sé una lunga e gloriosa tradizione poetica, dallo stesso Dante (“…e sì com’al pertugio/ de la sampogna vento che penètra”, Par., canto XX, vv. 23-24), ad Ariosto e Tasso in poi, passando per l’amorevolmente studiato Parini.
La forma risultante ha anche una maggiore forza semantica e viene in aiuto al poeta, che vuole rendere la totalità del possesso, della insinuazione. Non infrequente è anche l’uso di gli per li.
La rima penetra:cetra (ma non dimentichiamo anche l’allitterazione di “sol” con “Sola”) favorisce l’unità interna della quartina, spostando con grande naturalezza ed efficacia l’osservazione dagli alberi al corso d’acqua che segna l’approdo finale del bozzetto.
Ora, all’opposto della prima quartina, regna il piccolo, l’esiguo, il limitato, e in tal direzione vanno gli aggettivi “picciol” e “tenue”, rafforzativi in modo antitetico rispetto a quelli della prima parte, mentre nei versi di transizione, 5-6, l’aggettivazione è significativamente assente.
Il “Sola” anticipato all’inizio del verso 7 rimarca l’eccezione, la nota diversa del quadro naturalistico, ed è in posizione molto felice, davanti al verbo “garrisce”, che, accostato al “picciol suon di cetra”, suggerisce con tutta evidenza il carattere armonioso del suono.
In genere, il verbo, che nella lingua antica vale anche gridare, rimproverare, litigare, si riferisce al verso degli uccelli, specie delle rondini, con per lo più una connotazione uditivamente sgradevole; esso, però, si trova pure legato agli alberi, che producono un rumore (In un altro idillio alpino, nell’Elegia del monte Spluga, Giosuè ricorderà l’aggettivo dalla stessa radice garrulo, parlando delle “piante/ garrule e mosse al vento”, vv. 2-3, mentre in Primavera classica, e l’esempio è ancor più interessante per il passo di Mezzogiorno alpino, il riferimento è duplice e il suono è connotato in senso chiaramente gradevole: “Che importa a me del garrulo/ Di fronde e augei concento?”, vv. 13-14).
In Davanti San Guido si legge l’esclamazione “Com’è allegro de’ passeri il garrire!” (v. 46), ma non manca un uso più inconsueto, come in “Dietro garria co ‘l vento l’imperïal bandiera” (Su i campi di Marengo, v. 36).
L’esempio di Mezzogiorno alpino, nel complesso carducciano, rimarca il carattere armonioso del suono.
Al di fuori dei passi del nostro autore, oltre all’esempio tassesco della Gerusalemme liberata (“mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde/ garrir che variamente ella percote”, canto XVI, vv. 91-92), ricordato in alcuni commenti, possiamo citare gli ancor più calzanti versi del Cesarotti traduttore di Ossian, “Dolce garrisce il bel rivo azzurrino” (Berato, v. 510), “…io non ascolto/ Tintinnio d’arpa e non garrir di rivo” (Calloda, canto I, vv. 5-6) e “Qual è garrito di spicciante rivo” (Callin di Cluta, v. 17). Gli esempi testimoniano di un uso ricorrente. Infine, possiamo aggiungere il Monti, in un contesto naturalistico (“Suonar d’allegri cantici/ odo la valle e il monte,/ susurrar freschi i zefiri/ dolce garrir la fonte”, Le api panacridi, vv. 117-20).
L’idea di gradevolezza acustica, comunque, in Mezzogiorno alpino viene completata e rafforzata dal riferimento al muoversi della classica cetra, strumento caro ai poeti, che Carducci riprenderà anche nell’ultima sua poesia, Alle Valchirie (“Sveglisi ne’ freschi anni la pura vindelica rosa/ a un dolce accordo novo di tinnïenti cetre”, vv. 19-20).
Il sommesso e piacevole suono è anche festoso, argentino, si configura come un arpeggio musicale, reso con estrema delicatezza, sfiorando appena le corde (di qui l’uso di “picciol”), come un esile eppur incantevole segno di vita, che spezza il silenzio e la stasi della natura. E chi crea il prodigio del suono, che si lega ad un senso di freschezza, ma anche di malinconico avvertimento della caducità della vita, del suo destino di solitudine, chi spezza il silenzio, ma lo fa anche ricordare, è un’”acqua” (da notare l’anticipazione all’inizio del verso, in posizione di risalto, come per “Sola”) “tenue”, ossia una sottile vena che passa tra i sassi (non si dimentichino le note sulle varianti del testo, con tra l’altro la sostituzione di massi con sassi).
Dopo tre verbi al presente, nella seconda quartina, l’ultimo bellissimo verso, probabilmente il migliore dell’intero bozzetto, termina con una parola tronca, che rima con “mezzodì”, ed è “fluì”, un passato remoto di grande efficacia. Con esso il poeta, con grande senso della musicalità, vuole dirci che nel momento in cui arriva al suo orecchio il suono dell’acqua, la stessa è già andata oltre l’ostacolo, continua per la sua strada, destinata a portare il rivolo chissà dove, nel mistero della creazione.
E “fluì”, passato remoto con valore continuativo, è un termine che dura un attimo (e che non a caso piacque ad un esteta del verbum come d’Annunzio, che lo usa più volte), bello e malinconico come il suono appena percepito, suggestivo come tutto ciò che rende l’idea del vago, dello sfumato, dell’indefinito, secondo la lezione leopardiana.
Con la poesia del piccolo, insomma, si chiude Mezzogiorno alpino, nato nel segno della poesia del grande, e a lettura ultimata risulta chiaro a cosa corrispondano i due estremi, nel momento in cui comprendiamo che quella piccola vena d’acqua rinvia alla vita dell’uomo, alla sua fragile essenza, alla sua caduca realtà, quale viene pensata dall’Io.
Carducci, come nel finale di Sant’Abbondio, assapora il gusto della vita, vista in modo positivo, bella, ma sentita pur sempre limitata e fragile, specie se rapportata al grande, al mondo, alla natura, all’universo, all’eternità spaziale e temporale, a tutto ciò, insomma, che lo trascende di tanto e lo lascia senza parole.
In Mezzogiorno alpino, così, il sessantenne Carducci pone a confronto ciò che resta e ciò che passa, con il desiderio, anzi la voluttà, di godere quanto più possibile la parte residua dei suoi giorni. I suoi pensieri vagano nello scenario alpino, descrivendo il paesaggio e facendo delle presenze naturalistiche, senza alcuna goffa o greve sovrapposizione, il simbolo del destino umano.
Possiamo, in fondo, cogliere l’eco di una situazione come quella dell’Infinito leopardiano, ma lasciata involuta, contenuta mirabilmente nella descrizione paesaggistica. Alla fine, in Giosuè non c’è la dolcezza del naufragar, ma uno stato d’animo di malinconica serenità, per l’eterno fluire dell’uomo e delle sue cose.
Un atteggiamento di sereno equilibrio, diverso dall’angoscia che pervade il finale di Nel chiostro del Santo (“Sì come nubi, sì come cantici/ fuggon l’etadi brevi de gli uomini:/ dinanzi da gli occhi smarriti,/ ombra informe, che vuol l’infinito?”, vv. 13-16) e che caratterizza invece buona parte degli idilli alpini, dando un’ulteriore dimostrazione dell’affinità esistente tra questa poesia e quelle apparse sulla “Nuova Antologia”.
Non c’è dubbio, in ogni caso, che si tratti di una tra le pagine più ispirate del Carducci, in cui i termini e le immagini valgono in sé e sono organicamente e potentemente legati agli altri, in cui dal mondo montano, colto senza le deformazioni di una iperacuta sensibilità, emerge con limpidezza la trama dei pensieri e degli stati d’animo dell’ultimo Giosuè, ma decantata, purificata, lasciata nella sua essenza.
E questo è il poeta che meglio sa parlare al cuore di tutti i lettori.
[1] Cart. III, 75. Il Sorbelli lo ricorda nel Catalogo dei manoscritti di Giosue Carducci, cit., vol. I, p. 65.
[2] LEN, vol. XIX, p. 122.
[3] Ivi, p. 125.
[4] Ivi, p. 126.
[5] M. VALGIMIGLI, in G. CARDUCCI, Rime e ritmi, a cura di M. Valgimigli- G. Salinari, Zanichelli, Bologna, 1964, p. 143.
[6] G. PONTE, Come il Carducci compose “Mors”, “Vignetta”, “Mezzogiorno alpino, in “La Rassegna della letteratura italiana”, gen-apr. 1958, p. 68.
[7] Ponte ha segnalato a suo tempo (in op. cit., p. 68) che “l’espressione senza aura è anche sottolineata, mentre sopra ad essa sono tre parole indecifrabili (forse scritte più tardi dal Carducci con la sinistra)”.
[8] M. VALGIMIGLI, in G. CARDUCCI, Rime e ritmi, cit., p. 143.
[9] L. BANFI, in G. CARDUCCI, Rime e ritmi, a cura di L. Banfi, Mursia, Milano, 1987, p. 100.