INTRODUZIONE

 

 

 

            Non ho conosciuto Mario Carli (nato a San Severo, Foggia, il 30 dicembre 1888, come rettifica Francesco Giuliani dopo aver consultato nel Comune di origine il Registro degli Atti di nascita, e morto a Roma il 9 settembre 1935); ma ho potuto frequentare la moglie Maria, il figlio Massimo, e specialmente Mario Dessy, che sposò Maria in seconde nozze. Amicizie affettuose, in particolare con Dessy, che mi permisero anche, con quelle di Arnaldo Ginna, di Remo Chiti, di Primo Conti, e di altri personaggi non meno interessanti, di approfondire la conoscenza di quella "pattuglia azzurra" cui Carli appartenne.

            Che cos'era la "pattuglia azzurra"? Ne facemmo un convegno nel 1974, al Gabinetto Vieusseux di Firenze (poi gli Atti vennero riportati nella rivista "Antologia Vieusseux", fascicolo XXXIX­XL, luglio-dicembre 1975). Era il gruppo che era stato indicato, appunto, con quel nome, da Raffaello Franchi nelle sue Memorie critiche. Si trattava di Bruno e Arnaldo Ginanni Corradini (cioè Bruno Corra e Arnaldo Ginna), Mario Carli, Emilio Settimelli, Remo Chiti, che avevano fatto le loro prime armi letterarie nei periodici fiorentini "Il Centauro", "La Rivista", "La Difesa dell'arte", e cui, all'epoca di "L'Italia futurista", si aggiunsero Maria Ginanni (direttrice delle edizioni del periodico), Irma Valeria, Antonio Bruno, Alberto Maurizio, Neri Nannetti, lo stesso Franchi e Ugo Tommei. La "pattuglia" si allargò anche ai pittori: primi fra tutti Primo Conti e Rosa Rosà, illustratrice di alcuni lavori di Corra e di Mario Carli (Notti filtrate, a fianco dello stesso Ginna.

            Perché "azzurra"? Ho tentato di spiegarlo nell'intervento al Convegno del Vieusseux, poi ripreso dal mio Diario parafuturista (Lucarini, Roma, 1990): "Forse perché lo slancio adolescente che ritma il cuore di questi artisti ha «la gioia di lasciarsi andare nella rete azzurra di tante formule ricreate», come scrive Primo Conti nelle Imbottigliature (1917); al quale, dunque, si potrebbe per ora riconoscere la prima utilizzazione, nello stesso senso, dell'aggettivo. O perché «l'anima è azzurra come il cielo», come dirà Remo Chiti; o perché l'azzurro e il turchino li ritrovi più volte nelle prose e nei poemi di Raffaello Franchi, che dapprima si firma 'futurista', e di Enrico Cavacchioli (Le ranocchie turchine); e di Paolo Buzzi, che pubblica con lo stesso gruppo, passato dalle edizioni di 'L'Italia futurista' a Facchi di Milano, La luminaria azzurra; e di Palazzeschi che dice di Rosai: è «azzurro». E poco lontana, ma precedente, c'è un'altra avanguardia: quella espressionista di 'Blaue Reiter': Il Cavaliere azzurro. Ma «azzurro» - che era anche il colore preferito da Mallarmé - sta presso i rappresentanti più giovani del 'futurismo fiorentino' nel senso di puro e leggero, nelle negazioni come nei vagabondaggi attraverso l'aria e le cose. Dirà più tardi Yvan Goll nella Chaplinade: «Charlot scrive poemi azzurri»". E non a caso le lettere della copertina di Notti filtrate e le illustrazioni di Rosa Rosà sono stampate in azzurro! Tra gli appartenenti al gruppo più rappresentativi mi sembrò subito di prescegliere, fin dal 1967, Corra e Ginna, poi Chiti, e dedicai loro alcune pubblicazioni. Conti si "illustrò" da sé attraverso vari libri, ma dopo il mio recupero in Prosa e critica futurista (1973), soprattutto con La gola del merlo (1983). Degli altri mi occupai globalmente nello stesso Cinema e letteratura del futurismo. Ginna e Corra, nei paragrafi su "L'Italia futurista", sentendo però l'importanza che assumevano Mario Carli ed Emilio Settimelli, e lo stesso Mario Dessy (cui dedicai varie pagine in Teatro del tempo futurista, 1970: Il senso drammatico dell'occulto). Fu Dessy che mi incoraggiò a pubblicare, postumo, il libro di Remo Chiti La vita si fa da sé (1974), in cui tutti gli "azzurri" sono più o meno coinvolti.

 

 

           

           

            Era rimasto il rammarico di non aver potuto procedere oltre ed è stato con vero piacere che ho potuto leggere, a lavoro già compiuto, la indagine accurata, acuta e completa, di Francesco Giuliani, anche lui di San Severo, docente di italiano, portato alla ricerca, che non è al suo primo lavoro critico, e che era certamente il più qualificato per condurre uno studio sul poeta futurista concittadino, poi emigrato per ragioni familiari (il padre era un dipendente dello stato, capostazione, soggetto a trasferimenti), per le vicende della sua vita avventurosa, e infine per gli obblighi impostigli dalla carriera diplomatica.

           Il libro mette in risalto la statura di un poeta (e di un uomo) non comune; avverte le anticipazioni che lo stesso Carli - ma in genere tutto il gruppo primario di "L'Italia futurista" e della "pattuglia azzurra" - fa registrare in rapporto al surrealismo: un movimento che ha il suo atto di nascita nel 1924 (Manifesto di Breton), ma che Carli, Settimelli, Ginna, Corra, precorrono proprio per quel "lirico sonnambulismo", quel rifiuto della "inutile zavorra dei legamenti coordinatori" del discorso, quella propensione per la scrittura "automatica", "a ruota libera", in "flusso continuo", che Carli indica in apertura di Notti filtrate; cui va aggiunto anche Chantecler di Bruno Corra ("Il Centauro", 8 dicembre 1912), che "vuol dare la penna in mano all'atmosfera stramba dello studio: sarà una cosa quasi spiritica". "Sarò completamente sincero, cioè non penserò: chiuderò la porta al mio spirito e dirò alla mia penna: adopera come vuoi il tuo inchiostro e la mia mano. Chi non ha provato, scrivendo presso una finestra spalancata, in un giorno d'agosto al mare, l'illusione del sentire la penna destarsi a una vita più forte della propria, e correre per il foglio bizzarramente, da sola, trascinando il pugno, come impazzita, abbandonarsi al gran gorgo di sole di mare e di caldo dell'Estate, e dell'essere costretti a far le lettere inclinate a un buffo di vento o a farle allungate, languide, stanche, come disciolte, a un canto lungo, languido, stanco, lontano dai campi?

            Nessun'altra che me forse. Ma non importa". E Carli non assume argomenti distanti da questi nella premessa a Il Barbaro. Storia enfatica di uno spirito ("Il Centauro", n. 1, 3 novembre 1912 e seguenti): una "composizione libera e caotica" che "non tollera di essere ascritta a nessun genere".

          Alle qualità di precisione, di rigore, di informazione pazientemente verificata, che attesta questo libro, io ne aggiungerei una, che nella critica non deve prendere il sopravvento, per non ingombrare pesantemente l'oggetto di studio prescelto, ma che certamente - se nei limiti corretti - è di grande merito: quella dell'intervento originale, personalizzato, e "costruente". La critica che Giuliani esercita, nei riguardi - poniamo - dei testi carliani di La mia divinità, e soprattutto di Notti filtrate, cui dedica gran parte del suo studio, è creativa, supera ostacoli e limiti che spesso l'esegeta comune non osa, o non riesce a travalicare. E' la prima volta che "il poeta misterioso e profondo delle Notti filtrate", come disse F. T. Marinetti, riceve un'analisi lontana dalla verbosità perdigiorno, spesso buttate giù, se non a casaccio, certo per macinare pagine di cui spesso al lettore non resta nulla, e che, al contrario, qui aiuta veramente a capire.

        MARIO VERDONE

 

  

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