DIALOGHI IN DIALETTO GARGANICO
UN LIBRO A CURA DI MICHELE GALANTE
Lo sfoglio dei vecchi giornali, pubblicati in numerosi comuni della nostra
provincia, riserva spesso delle sorprese positive, confermando la loro
importanza. L’ultima conferma ci arriva dal volume “Cumma’, non ime ditte nente”,
appena giunto in libreria, a cura di Michele Galante (Edizioni del Rosone,
Foggia, pp. 159, euro 12).
Galante, nato a San Marco in Lamis, ha svolto a lungo attività politica,
come sindaco del suo comune di nascita e parlamentare nella decima legislatura,
ma ha anche dato alle stampe vari volumi, tra cui, nel 2006, un ponderoso
“Dizionario del dialetto di San Marco in Lamis”, scritto a quattro mani con la
sorella Grazia.
Proprio questo interesse per il vernacolo è alla base del suo ultimo
lavoro, nel quale ha raccolto 28 brani originariamente pubblicati sul periodico
“Il Solco”, edito a San Marco in Lamis dal 1928 al 1929 e diretto da Giovanni La
Selva. “Il Solco”, dalla cadenza prima settimanale, poi quindicinale, era
formato da 4 pagine e vi collaboravano dei nomi interessanti del panorama
pugliese, come Giustiniano Serrilli, Pasquale Soccio e Giovanni Tancredi, ma non
mancano le firme, su qualche numero, di scrittori come Alfredo Petrucci e
Riccardo Bacchelli.
Il periodico, al quale è stata dedicata di recente una tesi di laurea nell’Università di Foggia, ospitava notizie di cronaca, ma anche letterarie e umoristiche. Tra l’altro, uno spazio era dedicato a dialoghi nel dialetto sammarchese, pieni di brio e di umorismo, e proprio questi sono stati ora ripubblicati da Galante, il quale ha sottolineato che essi “sono la prima testimonianza di una produzione organica, e non episodica e saltuaria, di prosa dialettale di San Marco in Lamis di cui si ha notizia”.
Un primato, questo, che meritava la massima considerazione. Galante per
l’occasione ha pubblicato a fronte il testo in italiano, aggiungendovi anche
un’esauriente introduzione e delle brevi note finali. La prefazione, invece, è
opera del noto scrittore e traduttore Joseph Tusiani.
Chi conosce i giornali editi tra la fine dell’Ottocento e la prima parte
del Novecento sa bene che non mancavano rubriche e articoli firmati solo con
degli pseudonimi, e questo è il caso anche di questi brani. Se il nome del loro
autore (o dei loro autori) era all’epoca noto, con il tempo è finito nell’oblio,
ragion per cui gli scritti sono stati presentati come anonimi, anche se Galante
non rinuncia a fare qualche ipotesi, riprendendo l’opinione di Giuseppe
D’Addetta.
Di certo, gli scritti dimostrano una buona capacità di utilizzare il
dialetto di San Marco in Lamis, che appare uno strumento duttile e vivace,
perfettamente in grado di veicolare una carica di umorismo, al cospetto di un
piccolo mondo di paese, alle prese con i problemi della povertà, della mancanza
di lavoro, dell’ignoranza. Va rimarcato, però, che alla base di queste pagine
non c’è un intento politico o sociale, bensì la volontà di rappresentare dal
vivo una comunità garganica, ricca dei soliti contrasti tra suocera e nuora, tra
fidanzati o sposi, tra comari che si abbandonano a critiche pepate o ad amare
considerazioni.
Si pensi, ad esempio, ad un brano come “La lettera”, nel quale una donna
scrive al suo uomo, emigrato in America, raccontandogli delle difficili
condizioni di vita, ma anche dell’arrivo del cinema. L’uomo promette di
ritornare subito in patria, ma la moglie lo invita a rimanere negli States un
altro paio d’anni, così, quando viene, con il guadagno “ce facime ‘na bella
gesenola e campame da signure”, ossia “compriamo una piccola tenuta agricola e
campiamo da signori”.
L’emigrazione è un tema che ritorna a più riprese, anche se mai in modo
angoscioso e drammatico, in ossequio alla maniera “comica” in cui sono scritti i
brani e alla stessa concezione che del dialetto hanno gli anonimi scrittori.
Sullo sfondo del brano, comunque, è facile riconoscere modi di vivere per
fortuna sorpassati. Le fogne mancavano e l’acqua veniva attinta dai pozzi (“Ai
pozzi”), non senza difficoltà, mentre i maschi non mancavano di alzare le mani
sulle proprie donne, come in “Perle coniugali”, dove il marito assesta uno
schiaffo alla moglie per futili motivi, ribadendo che “qua lu patrone so’ ghi’,
e non aiavuzanne tante la cascetta”, ossia “Qui il padrone sono io e non alzare
la voce”. La donna lamenta di non poter nemmeno parlare, senza che l’uomo usi le
mani, ma poi tutto finisce nel migliore dei modi e gli sposi escono per gustarsi
lo spettacolo dei fuochi pirotecnici.
L’importanza dei brani, però, lo ribadiamo, è tutta legata all’uso del
vernacolo, uno strumento non facile da usare, ma che in questo caso mostra
un’apprezzabile maturità, aggiungendo un altro tassello di conoscenza ad una
tradizione che a San Marco in Lamis, e in generale sull’intero Gargano, appare
sempre più significativa e matura, attraversando l’intero Novecento.