LA VITALITA’ DELLA POESIA DIALETTALE

L’ULTIMO LAVORO DI LEONARDO AUCELLO

 

E’ da poco giunto sugli scaffali delle librerie l’ultimo lavoro di Leonardo Aucello, “L’occhie mariole” (Levante, Bari, pp. 155, euro 10), ossia “L’occhio vispo”, una densa raccolta di liriche composte nel dialetto di San Marco in Lamis. L’autore, docente di scuola media superiore, è sicuramente noto agli addetti ai lavori, che lo hanno ritenuto uno degli scrittori vernacolari più interessanti del panorama pugliese, giudizio che condividiamo. Non a caso si è parlato di lui in alcuni convegni sull’argomento.

         Nella nostra epoca globalizzata potrebbe sembrare in apparenza assurdo comporre in dialetto, scegliendo, per giunta, il vernacolo di un comune di media grandezza del Gargano; ma a ben pensarci attraverso questa opzione si esprime la fedeltà alle proprie radici, il desiderio di restare fedeli ad un mondo che ha la forza delle cose, della concretezza, di un Destino al quale non si può e non si vuole sfuggire. Anche così, del resto, si evita la minaccia della globalizzazione, intesa nel suo senso deteriore, della fuga verso il Nulla.

         Aucello ha già composto altri tre libri in vernacolo, mostrando una sempre più forte consapevolezza delle sue scelte (“Li zacquare”, 1996, “Li pustegghiune”, 1997, e “Lu matte maligne”, 2000). Tra l’altro, come studioso, ha anche curato, insieme con Michele Coco, la ristampa, nel 2002, de “I bozzetti dialettali”, una raccolta di liriche in vernacolo di Giustiniano Serrilli, che in prima edizione è del 1907, per i tipi della tipografia sanseverese di Vincenzo De Girolamo.

         Serrilli, anch’egli di San Marco in Lamis, è il fondatore di una tradizione dialettale nel cui solco si inserisce con originalità e personalità Aucello.

         Il libro è corredato di una puntuale traduzione dei testi in italiano, il che si sottolinea per rispondere ad una facile obiezione sulla scarsa conoscenza del sanmarchese. In effetti, senza le traduzioni le poesie sarebbero solo in parte comprensibili anche a noi, che pure abitiamo a poco più di venti chilometri di distanza. Ma la presenza dei testi in italiano non deve distrarre: le liriche vanno lette nel testo originale, poi confrontate con il testo in lingua nazionale, per chiarire dubbi e sanare lacune, poi riassaporate nella versione originale. E’ uno sforzo che vale la pena di fare, dal momento che Aucello utilizza il dialetto con un grande senso del lessico e della musicalità.

E’ una lingua che non esita a recuperare dal passato qualche termine di cui ha bisogno, senza, peraltro, eludere il rapporto con il presente. Un sanmarchese un po’ antico, insomma, lavorato letterariamente, ma vero. 

 

 

Nulla, d’altra parte, nelle poesie di Aucello, è affidato al caso, ma è il risultato di un’attenta scelta, in cui si ritrova la sua esperienza di docente, la sua consuetudine con i classici e la metrica italiana. Di qui l’uso di versi di diversa lunghezza, di strofe come la quartina, di metri come il sonetto, di rime ed assonanze, come nella tradizione vernacolare.

         Quanto ai temi, l’autore spazia in un vasto ambito. Troviamo, così, alcune liriche dedicate a personaggi caratteristici di un mondo di paese chiuso e per certi versi un po’ d’altri tempi, ritratti pungenti e pregnanti di donne volgari o di prepotenti da strapazzo, nei quali Aucello cala una sua nota risentita, che sottolinea la fatuità, la malvagità, la stupidità di tanti uomini.

         E’ una caratteristica dell’arte del Nostro che in altre liriche sale ancor più in primo piano. Si pensi a “Lu paliatone”, tradotto con “Un fracco di botte”, dove si esprime il desiderio di rivalersi nei confronti di un mondo che è molto lontano dall’essere il migliore dei mondi possibile.

         La rabbia si trasforma spesso in malinconia e dolore, e questa nota dolente in molte liriche si esprime in modo più diretto: allora Aucello si mostra nel suo vero volto, senza false reticenze, parlandoci di lui, dei suoi desideri, dei suoi sogni, dei suoi dolori. Anche in queste composizioni la poesia si libra, cercando e trovando la solidarietà del lettore, fino all’ultima lirica, “Jeva jesse accuscì”, ossia “Era destino”, doveva andare così, che contiene una morale che porta all’accettazione della realtà.

         Certo, le cose non vanno bene, i motivi di sofferenza sono tanti, ma bisogna guardare avanti a sé senza abbattersi, senza fermarsi, prendendo anche esempio da personaggi come Pasquale Soccio, al quale Aucello dedica una commossa lirica, “Sera de frebbare”, traendo spunto dalla sua scomparsa.

          Questa conclusione, frutto di una saggezza che è insieme popolare e dotta, è quanto mai consona al denso libro, che contiene anche una nota critica dello scrittore Carlo Gravino.     

          “L’occhie mariole”, insomma, conferma la vitalità della vena lirica di Leonardo Aucello, sempre più scaltrita e sicura di sé. 

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