LA DILOGIA DI WALTER SCUDERO

 

 

Con la pubblicazione del Breve viaggio nel (?) nomeno dell’opera d’arte, appena apparso, per i tipi delle Edizioni del Rosone di Foggia, Walter Scudero ha da poco completato la sua dilogia dedicata ad un tema intrigante, ossia Sul limitare del limite. Si può dire, pertanto, che ha portato a termine l’impegno preso già nel 2014, quand’era apparso, sempre con lo stesso editore, il testo Pepe nero. Silloge di poesia-non poesia.

Scudero, classe 1948, nato a Torremaggiore, ha esercitato fino a qualche anno fa la non facile professione di medico anestesista, occupando anche ruoli di responsabilità nella sanità del nostro territorio. Ora, con il pensionamento, ha potuto dedicarsi con maggiore impegno a quelle che da sempre sono le sue passioni, i suoi svaghi prediletti. Di qui, dunque, la nutrita serie di pubblicazioni che ha dato alle stampe, che spaziano in ambiti molto diversi, com’è facile verificare leggendo le note biografiche accluse al secondo volume della dilogia. La sua curiosità, viene da dire, è onnivora, visto che si è occupato di storia dell’arte come di canzoni, di temi religiosi come letterari, fino alla pubblicazione di sillogi di racconti e di liriche da lui composte. Numerosi lavori sono legati alla sua Torremaggiore e al territorio limitrofo, ma non mancano anche spunti tratti da Napoli, la città in cui ha studiato a suo tempo medicina, da luoghi lontani e da personaggi appartenenti alla macrostoria, che lo affasciano allo stesso modo. 

Spesso l’occasione per una sua pubblicazione è offerta da una delle conferenze che tiene con regolarità, magari in una delle sale del castello di Torremaggiore, al termine delle quali è solito donare ai convenuti una copia cartacea del discorso, a futura memoria, per non disperdere il succo dell’incontro. Qualche mese fa, così, lo abbiamo ascoltato soffermarsi sulle funeste vicende del terremoto del 1627 in Capitanata, per poi distribuire ai convenuti un utile opuscolo.

Ma veniamo ai due testi in questione, che trattano di poesia e di arte, con in comune la stessa volontà di affrontare questioni molto rilevanti, sulla scorta di non comuni conoscenze filosofiche di base. Scudero vuole programmaticamente sfuggire alla superficialità e alla banalità, trasportando il lettore in analisi e osservazioni che lasciano riflettere. In Pepe nero, così, si parte dal destino della poesia nella società contemporanea e dai suoi limiti. Per comprendere il suo punto di vista, è indispensabile leggere le pagine di prefazione, in cui Scudero mostra di apprezzare in modo particolare quella che chiama la “poetica dell’attimo”, la poesia ermetica di Ungaretti e degli altri poeti che a lui si avvicinano.

La poesia come illuminazione, però, deve fare i conti con i limiti della comunicazione, con l’impossibilità di trasmettere questa stessa illuminazione, rendendola stabile e permanente. Ecco, allora, la soluzione trovata da Scudero: “….una nuova vita per la poesia potrebbe consistere, nel momento attuale, proprio nella consapevolezza esperienziale sofferta e sincera di quella incapacità, da parte della stessa poesia, di esprimere e rivelare un ‘senso’ immutabile; in definitiva, l’incapacità identitaria di credere in sé. Se si vuole, una poetica della non-poesia”.

Insomma, la consapevolezza dei limiti della poesia, assunta apertamente, diventa un modo per aggirare l’ostacolo, giungendo lo stesso al traguardo. Questo, in sintesi, il senso dell’operazione di Scudero, il quale, passando dal discorso teorico a quello pratico, offre al lettore le liriche che formano la prima delle tre sezioni del volumetto, intitolata non a caso poesia-nonpoesia. La prima lirica, tra l’altro, nel finale dà anche conto del titolo complessivo del libro: “È solo un cadavere/ uno scritto di poesia:/ comunica memorie/ ma non ne ha più/ per sé…/ È come/ pepe nero/ che brucia in bocca/ solo per l’attimo che brucia”.

 Le liriche sono per lo più semplici, dirette, ma sempre segnate dai limiti della parola, da questo senso del fluire che si accompagna al sapore della sconfitta (“No… Nemmeno ai poeti si fa palese,/ per più d’un attimo, quel senso…/ presto il verso annichilisce l’intuizione/ e la sincerità si fa studiata ipocrisia”).

La seconda parte del libro si intitola vecchie cose…per dirla nel vecchio stile…, ed è una programmatica ripresa di versi sentiti ancora come validi e significativi, mentre l’ultima sezione porta come titolo scherzucci di dozzina, chiudendosi con una lirica, Opinio (epilogo), in cui si ritrovano i temi della prefazione. Scudero riflette tra l’altro sul bisogno di pubblicare le sue poesie, concludendo che non c’è nulla di male ad aggiungersi ai tanti poeti del nostro tempo: “Son tanti a scrivere bene, male… Oddio,/ tra tutti gli altri ci ho provato anch’io…”.

Nel volume da poco dato alle stampe, invece, nel cui titolo risuona un “noumeno” di kantiana memoria, noto a quanti hanno avuto a che fare con la filosofia, sui banchi di un liceo, Scudero, non senza precisazioni e adattamenti concettuali, cerca di andare a fondo dell’interpretazione di importanti opere d’arte, rivelando la sua solita curiosità. Si tratta di quadri di Leonardo da Vinci, di statue di Michelangelo, di lavori ricchi di incognite e di problemi, sui quali Scudero si sofferma, con il suo linguaggio forbito, la sua ricchezza di citazioni, le sue ipotesi di lavoro.

Anche questo secondo lavoro, insomma, mostra il modo di lavorare del suo autore, gli obiettivi che si propone, offrendo delle pagine inconsuete, particolari, che si leggono sempre con piacere, seguendo il flusso continuo della curiosità.

 

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