"L'ANIMA E L'ULIVO" DI GRAZIA STELLA ELIA
E’ freschissima di stampa una nuova silloge poetica di Grazia Stella Elia,
“L’anima e l’ulivo” (Levante, Bari, pp. 135, euro 15). L’autrice, docente a
riposo, è da anni molto considerata dalla critica, sia per i suoi versi in
vernacolo che per quelli in italiano. Nata a Trinitapoli, dove vive, ha dedicato
molta attenzione alla produzione nel suo dialetto “casalino”, di cui è una
grande conoscitrice, tanto da aver pubblicato nel 2004 un “Dizionario del
dialetto di Trinitapoli”.
La
poetessa, però, a giusta ragione non trascura la lingua di Dante e Petrarca,
come dimostra questa silloge, che si ricollega per certi versi a “Versi
d’azzurro fuoco”, del 1997, e che si avvale della puntuale e cordiale prefazione
di Pietro Sisto, dell’Università di Bari, che evidenzia i principali motivi di
questa produzione, che si basa sul vivo bisogno della parola e su di una
profonda fede religiosa.
Le liriche presentano l’indubbio pregio della chiarezza,
dell’immediatezza, mettendo subito a proprio agio il lettore, senza deluderlo. I
versi semplici, però, com’è noto, sono da sempre quelli più difficili, e la
poetessa ne è consapevole.
Grazia Stella Elia non vuole staccarsi dalle presenze quotidiane, a partire
dagli incantevoli volti della sua Puglia e dai suoi familiari. L’ulivo,
ricordato già nel titolo, è un simbolo di forza, di bellezza, di rassegnata
calma, di adeguamento alla volontà di Dio, in un’ampia casistica. In “Ulivi”
questo rapporto viene compendiato in pochi versi: “A guardare le chiome/ così
ricche d’armonia/ alberi lieti giulivi/
appaiono gli ulivi,/ ma il tronco da ferite trafitto/ che trapassano la scorza/
è immagine del dolore”.
Numerose liriche nascono dall’esperienza della sofferenza, dal timore di
soccombere, che rende tristi le meditazioni poetiche, ma la raccolta non ha un
epilogo triste. Anzi, al contrario, c’è un accenno di rinascita (“Sei l’araba
fenice”), che precede la preghiera finale, “Versa olio e vino”, con la quale
l’autrice chiede al Cielo il balsamo della gioia per le sue ferite.
Questa vena, pagina dopo pagina, schiude senza preavviso dei momenti di grande
efficacia, come in “Nell’ora del crepuscolo”: “Nell’ora del crepuscolo/ quando
muore la luce/ è un po’/ come se/ morissi/ anch’io.// A nulla varrebbe/ se mi
truccassi/ di sole”. L’attacco sembra banale, scontato, ma l’epilogo della
seconda strofa modifica bruscamente il quadro, a tutto vantaggio degli esiti
letterari.
Non manca in questi versi l’attenzione al passato. Nelle liriche dedicate al
padre, ad esempio, la poetessa si confessa innamorata di due lingue, “il
dialetto verace degli avi/ e l’italiano schietto/ semplice come la tua razza”,
mentre in “Sangue di transumanza” avverte ancora le tracce del passaggio delle
greggi d’Abruzzo, che sui monti sognano il mare, mentre nel Tavoliere “la
frescura montana”.
Questo libro, che è poi un diario poetico disteso nel tempo, come chiariscono le
date, rivela, nel complesso, la sua necessità e conferma le qualità della sua
autrice.