III- PROBLEMI E CONFRONTI
Quando viene dato alle stampe il libro Rime e ritmi (con la data dell’anno successivo, come sappiamo, seguendo una normale prassi editoriale), gli Idillii alpini perdono la loro unità, venendo piegati al sostanziale e generale ordinamento cronologico che regola le ventinove liriche.
L’ostessa di Gaby, al diciassettesimo posto, precede immediatamente Esequie della guida E. R., mentre In riva al Lys retrocede al ventiquattresimo, davanti all’Elegia del monte Spluga e a Sant’Abbondio, il cui ordine, dunque, viene invertito, contrariamente a quanto registrato sul fascicolo della “Nuova Antologia”.
Del ciclo, in ogni caso, restano in piedi due blocchi, il primo che fa riferimento al 1895, l’altro al 1898.
Prima ancora de L’ostessa di Gaby, nel volume zanichelliano c’è Mezzogiorno alpino, la lirica con tutta probabilità più nota e più valida del gruppo, che però, come già ricordato, non appartiene propriamente al ciclo degli Idillii alpini, malgrado quanto si possa all’apparenza pensare e si trova anche registrato in alcuni testi, ad esempio nell’ampia e dettagliata biografia del Biagini[28].
Questo particolare, in verità, non sembra aver attirato molto l’attenzione dei critici, eppure per certi versi colpisce il fatto che Carducci abbia escluso dal ciclo un’opera ispirata al mondo delle alpi valdostane, di breve respiro e nata a Courmayeur nello stesso periodo dell’Ostessa e dell’ideazione delle Esequie.
La copertina dell’inserto che contiene il manoscritto carducciano riporta il titolo originario, In montagna, con l’unica data del 27 agosto 1895, e in calce ai versi viene ricordata l’ora, “avanti le undici”, secondo la solita meticolosità dell’autore; mancano, però, ulteriori notizie sulla storia del lavoro.
Il titolo sarà ripreso in modo identico nel 1898, per la lirica, rimasta incompiuta, scritta a Madesimo “per l’inizio o la ripresa di quell’opera di rimboschimento da lui sempre propugnata e incoraggiata in seno alla Società Pro Madesimo”[29], che avrà il poeta come presidente onorario. I versi, dei quali riparleremo, portano la data del 28 agosto.
Al 18 agosto 1890 rinviano invece i frammenti In montagna, anch’essi rimasti inutilizzati tra le carte di Carducci.
Il titolo, insomma, non resta isolato e sembra rivelare sin dall’inizio una qualche provvisorietà. Di certo, le due quartine del 27 agosto, quando saranno date per la prima volta alle stampe, nel volume del 1899, saranno ribattezzate Mezzogiorno alpino, con uno spostamento che sottolinea non più il luogo, ma l’ora, il trionfo del sole che regna incontrastato tra rocce e ghiacciai, in un silenzio rotto solo dal rumore dell’acqua di una piccola vena.
La più vistosa peculiarità della lirica è che in essa manca ogni riferimento diretto all’elemento umano, sia all’io del poeta che ad un suo interlocutore, un tu qualsiasi, sia alle figure del mondo alpino, e forse proprio questo carattere descrittivo ed impressionistico è alla base della sua esclusione tra i bozzetti da consegnare alla “Nuova Antologia”.
I versi poterono, in altri termini, sembrare al Carducci poco localmente caratterizzati e vivaci, quindi inadatti per il ciclo alpino, e non è neanche escluso che contasse su di una diversa utilizzazione.
Fatto sta che mentre L’ostessa viene rivista e rifatta, mentre lo spunto delle Esequie viene sviluppato, a distanza di un triennio, con la stesura dei versi, Mezzogiorno alpino non porta altre date e sembra pertanto tagliato fuori dal lavorio legato agli Idillii del 1898, prendendo direttamente la via dell’ultima raccolta, senza che Giosuè avesse mai pensato ad una sua inclusione.
La scelta, ripetiamo, ci lascia sorpresi, tanto più che a tutti gli interpreti, ed a maggior ragione ai lettori, è apparso naturale il nesso di Mezzogiorno alpino con le altre liriche del ciclo, ragion per cui anche noi prenderemo in considerazione la poesia, esaminandola con la dovuta attenzione.
Nell’uso del termine idillii si scorge una chiara ipoteca leopardesca, fatta rilevare in modo pressoché unanime. Del resto, il 1898 è l’anno del primo centenario della nascita del poeta di Recanati, anniversario da poco bissato, e Carducci, che presiede la commissione che pubblicherà per la prima volta, sia pure con un altro titolo, il monumentale Zibaldone, pur così tanto impegnato su molti fronti, fornisce il suo prezioso contributo.
A gennaio scrive il saggio Le tre canzoni patriottiche di Giacomo Leopardi, a giugno tiene un solenne e famoso discorso nella sala grande del comune di Recanati, Allo scoprimento del busto di Giacomo Leopardi, e la Zanichelli gli pubblica con tempismo il volume Degli spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi.
Il suo pensiero, specie nella prima parte del 1898, doveva correre spesso al Recanatese, con la cui produzione si era confrontato per tutta la vita, sia pure con delle oscillazioni, dalle opere giovanili, quando militava tra gli scudieri dei classici, in poi.
E’ quasi logico, pertanto, con il senno del poi, che per unire le sue poesie montane Carducci abbia pensato al nome di idillii, una scelta che doveva anche contribuire ad aumentare l’interesse del lettore verso gli ultimi parti della fantasia carducciana, instaurando una sorta di sotterraneo collegamento tra due grandi, uno d’inizio secolo, l’altro della fine dell’Ottocento.
Giosuè, insomma, omaggiava e per certi versi gareggiava con il maestro marchigiano, richiamando l’attenzione su di sé, indiscusso vate della terza Italia. Di qui l’impegno a realizzare gli idillietti, dei quali parla, come abbiamo visto, nella lettera al Menghini del primo settembre.
Il 5 settembre, inviando a Severino Ferrari Sant’Abbondio e L’ostessa di Gaby, definisce il primo vagamente “un sonettino”[30], mentre il secondo è “un piccolo epigramma idillio”[31].
Parlando così dell’Ostessa, Carducci vuole alludere, con epigramma, sia alla brevità, come del resto piccolo, sia all’uso del distico elegiaco, caratteristico del genere nella poesia classica; con idillio, si pone l’accento, in questa che è la pagina più radiosa del ciclo, sull’incantevole sensazione prodotta dalla natura, dal contatto con il paesaggio montano, che porta ad una fuga dalla realtà, ad un dolcissimo fantasticare sugli esseri immaginati nella lettura di qualche “canzon d’arme e d’amori”.
Risalendo a ritroso nel tempo, non possiamo non ricordare due celebri poesie carducciane, entrambe comprese, l’una dopo l’altra, nelle Rime nuove, che ripropongono nel titolo il vocabolo, usato in un’accezione tradizionale, come del resto avviene nel caso de L’ostessa: Idillio di maggio e Idillio maremmano.
La prima lirica è più precisamente un anti-idillio, ossia un’aspra satira della consueta poesia ispirata al mese delle rose e al trionfo della primavera, con tutto il suo corteggio di amori e di sentimentalismo (“Maggio, idillio di Dante e Beatrice,/ Che di tentazioni/ Le vie, d’acacie infiori la pendice,/ Le case di mosconi”, vv. 1-4); la seconda è una riuscita rievocazione della “bionda Maria”, che avrebbe potuto dare la felicità al Carducci, in un’improbabile vita a contatto con una natura che rende gli uomini vigorosi e paghi. C’è qui l’idillio quale poteva concepirlo il poeta che posa da uomo forte.
Anche tra le poesie giovanili, poi, non mancano dei manierati idilli, risalenti ai primissimi anni cinquanta, come La spigolatrice, del 1851, un invito al lavoro in un quadro della vita rusticale felice e confidente nell’aiuto del Signore, e Invito a ‘l lavoro, che ha molti caratteri in comune. Scrivendo le Odi barbare, poi, il poeta non mancò di definire “idilli in esametri”[32] due poesie come Una sera di San Pietro, basata sul greve ricordo di un momento dell’infanzia maremmana, e Sogno d’estate, in cui ritornano i suoi cari defunti, ancora vivi e inconsapevoli del destino, per poi lasciare spazio al presente, rappresentato dalle amate figlie, intente alle loro opere.
Nel 1898 il vocabolo veniva ripreso per connotare la varietà del ciclo, nel quale la natura non è solo quella che induce al sogno de L’ostessa di Gaby o che infonde assennati pensieri, come nei due sonetti, ma è anche quella che nella sua grandezza opprime, come in Esequie della guida E. R., o sa essere quanto mai grigia e arida, dopo aver illuso, come nell’Elegia del monte Spluga, e lo spunto veniva proprio dal Leopardi, di cui tra l’altro Giosuè scrisse, nel volume Degli spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi, a proposito del momento caratterizzato dai piccoli idilli, ossia gli idilli veri e propri: “Per il Leopardi l’idillio non è descrizione più o meno lunga della vita agricola e pastorale nei dialoghi e nei canti, come in Teocrito in Virgilio e nel Sannazaro; e né meno rappresentazione della vita semplice di famiglia, come in Voss e nel Goethe e in altri moderni; e né meno rifacimento o ristauro di frammenti e di ricordi e di affetti antichi, come in Andrea Chenier”[33].
Carducci aggiunge che Leopardi “ritornò al significato e al concetto del termine greco: fece bozzetti, quadretti, ritratti istantanei d’un paesaggio, d’una impressione, d’un ricordo, d’un sogno; ma, al contrario dei greci, mettendovi dentro molto di sé e del senso e del modo onde avea percepito quella visione o subito quella impressione”[34].
Se l’emozione lirica nasceva nel Recanatese dalla contemplazione di un paesaggio, di un luogo, di un evento, allo stesso modo Carducci individuava come elemento di raccordo per i suoi versi una realtà fatta di scenari e paesi di montagna, laddove l’io trovava lo spunto per esprimersi, ponendo questo mondo interiore in un rapporto più o meno stretto con i momenti descrittivi.
In questo modo, dunque, la diversità delle liriche del ciclo alpino, la cui storia abbiamo cercato di ricostruire nelle sue principali fasi, otteneva una sua base di raccordo nella designazione collettiva di Idillii alpini.
IV- TRA MONTI, ALBERI E FIUMI
Le sei liriche da noi prese in considerazione appartengono alla seconda parte degli anni Novanta, ma si ricollegano ad una particolare attenzione rivolta da Carducci al mondo della montagna, che risale al decennio precedente e che trova riflesso nei due volumi canonici Rime nuove e Odi barbare.
Nel 1885, anno segnato, com’è noto, da un attacco di paralisi, i cui effetti il Nostro cercò di esorcizzare anche scherzandoci sopra, Giosuè si trovò a soggiornare, su consiglio dei medici, nei mesi estivi, in Carnia, a Piano d’Arta, dove nascono alcune liriche famose e la magia della montagna trova spazio in varie lettere, come ci ricorda il Valgimigli[35]; tra queste una, abbastanza nota, è inviata il 30 luglio alla moglie ed è piena di squarci paesaggistici visti in una luce radiosa e positiva, con periodi dedicati ai fiori, agli alberi, alla magia delle prime ore della giornata.
In questo periodo nasce In Carnia, dove si ritrovano molti degli elementi che con una certa costanza ricorrono in tutte le liriche del Carducci montano, il quale (e questo è un concetto da non perdere di vista, che trova costanti conferme) non trasfigura il volto della natura, non cambia pascolianamente i rapporti d’importanza tra le varie parti dello scenario, ma lo lascia sempre riconoscibile, con realistica evidenza, cercando piuttosto di conferire forza e vivacità agli elementi più vistosi, dalla descrizione degli alberi, ora rappresentati dagli abeti, all’immancabile corso d’acqua, che qui è un torrente che si getta nel Tagliamento, il quale ai versi 51-52 ricorda vagamente il finale di Mezzogiorno alpino (“Sol la But tra i verdi orrori/ S’ode argentea scrosciar”[36]).
Evidente, poi, è la presenza di elementi coloristici, altra costante del ciclo alpino, ma non solo di esso (“Bianche in vesta, rossi i veli,/ I capelli nembi d’òr”, vv. 21-22), e non mancano neppure punti di contatto lessicali con le liriche del decennio successivo. Ad esempio, il “tappeto di smeraldo” (v. 3), riferito al verde dei prati, ricorre, oltre che nel famoso attacco di Courmayeur (“Conca in vivo smeraldo”, v. 1), anche in Sant’Abbondio (“il Madesimo cascante/ Passa tra gli smeraldi”, vv. 7-8); ma non dimentichiamo “i campi/ Smeraldini” de Il comune rustico (vv. 1-2).
Sono tutte poesie con chiare affinità contenutistiche. La lirica, comunque, che più ci viene in mente leggendo In Carnia è l’Elegia del monte Spluga, con l’attenzione alle fate, alcune venute da lontano, dal mondo germanico. Alla fine, nella lirica di Rime nuove si ricorda che “da tempo in su la Tenca/ Niuna fata non appar” (vv. 49-50) e lo spirito della leggenda è rimasto solo e inquieto, come triste e addolorato è il poeta, che nel finale interviene in modo vistoso.
Allo stesso periodo di In Carnia rinvia un altro capolavoro, Il comune rustico, nel quale la parte paesaggistica convive benissimo con la poesia della storia, per così dire, culminando con il noto verso finale, “Brillando su gli abeti il mezzodì” (v. 36), che fa tornare in mente l’immobilità di Mezzogiorno alpino, con quel sole che penetra “Pini e abeti” (v. 5), una coppia di alberi che ricorre in sequenza invertita nell’opera di Rime nuove (“D’abeti e pini”, v. 19).
All’anno dopo, il 1886, risale Mattino alpestre, legato sempre a questa prima vacanza carnica, ma che riprende e rielabora lontani spunti del 1852, maturati a contatto con il Monte Amiata.
La nota importante di questa lirica, dal titolo vicino a Mezzogiorno alpino, sulla cui scelta forse influì in modo più o meno consapevole, è rappresentata dal suo carattere esclusivamente descrittivo, anche se il ritmo della visione naturalistica è rallentato, anzi decisamente impacciato, dalle frequenti similitudini e da un linguaggio poco adeguato.
Il risultato è una poesia di gran lunga inferiore alle due dello stesso libro appena citate, densa di echi letterari e priva di quella concentrazione e di quella unità che si ammirerà invece nella breve lirica di Rime e ritmi. Ma il cammino è segnato.
Quanto al luogo di villeggiatura, il 1886 è caratterizzato dalla permanenza a Caprile, in provincia di Belluno, nel Cadore, e leggendo l’epistolario non mancano dei chiari segni di attenzione al mondo alpino.
Un momento ancor più importante è rappresentato dal 1887, quando Carducci soggiorna a Courmayeur e a questo periodo risalgono, tra gli altri documenti, le parole scritte per l’album della marchesa Fiammetta Doria, intitolate Monte Bianco, datate Courmayeur, 12 agosto 1887: “Nel conspetto del Monte Bianco, in questa grandiosa e insieme deliziosa valle, io non sento in me spirito di poesia, non so immaginare, non posso pensare: contemplare, mi basta e mi giova. Il presente in arte non è: le grandi inspirazioni, e le piccole, sono dall’avvenire o dal passato. Speranza in gioventù, memoria negli anni, che inchinano o declinano. O Monte Bianco, o nobili forme di conoscenze a pena scorte, come sarà dolce ripensare di voi, nell’afa incresciosa, nel torpido gelo, tra il volgo troppo conosciuto della pianura!”[37].
E’ possibile che anche nel resto dell’anno il poeta ripensasse talvolta alle zone alpine, ma è sicuro il ruolo importante che la permanenza in quelle zone, il rapporto stretto e continuo, avrà nella composizione delle liriche di soggetto montano, e i dati visti per gli Idillii sono molto indicativi.
Giosuè sembra assimilare questo mondo, passando dall’iniziale reverente disorientamento ad un legame osmotico, ad una vicinanza artisticamente feconda, che rappresenta una nota importante, in cui arte e vita si uniscono nel migliore dei modi.
A Courmayeur, del resto, ai piedi della vetta dell’Europa, quando ritorna a villeggiarvi, nel 1889, realizza una delle liriche che più dovevano rimanere famose. Gli anni sono più o meno gli stessi dei lavori di Rime nuove.
L’ode barbara che celebra la cittadina bagnata dalla Dora Baltea presenta la scoperta di una nuova fonte di ispirazione e di suggestione, dotata della capacità di rasserenare l’animo; qui Giosuè medita “carmi sereni” (v. 20) e si perde in dolci fantasie.
E’ una sorta di rivelazione, in cui gli elementi descrittivi si aprono appena al ricordo dei “carmi de’ popoli e l’armi” (v. 12), nella terza strofa, e che risente tuttavia di certa solennità che al nostro gusto di moderni dispiace, con quel “Salve”, presente all’inizio della sesta strofa, che ricorrerà in altre composizioni e che doveva diventare tra i critici un simbolo negativo, un emblema, appunto, dello sparare a salve carducciano.
Il mondo valdostano diventa in ogni caso protagonista, da un punto di vista contenutistico, costituendo un importante punto di riferimento per gli idillii alpini, alcuni dei quali, come sappiano, sono nati proprio a Courmayeur, come la barbara L’ostessa di Gaby, nella quale la brevità aiuta a conferire una vivacità e una freschezza che la lirica del 1889 ha solo a tratti.
Courmayeur non è comunque l’inizio assoluto di questa attenzione alla montagna e, d’altra parte, in proiezione futura, non possono sfuggire certi collegamenti tra quest’ode barbara e il sonetto Sant’Abbondio, legato a Madesimo (ad esempio il fumo che si leva dai casolari e la finale meditazione sulla vita).
La montagna ispira Carducci e la fantasia ritorna su certi particolari aspetti, con ricorrenti elementi verbali, a dispetto dei diversi luoghi. Ovunque, d’altra parte, attraverso lo sfondo naturale il poeta arriva alla scoperta della verità, intesa nel suo senso laico di chiarezza intorno alla vita, al proprio destino nel mondo, al ruolo del singolo in rapporto agli altri, alla distanza che c’è tra le piccole persone e l’immenso universo.
Nel 1888 proprio a Madesimo, legato alle due ultime liriche degli Idillii, il poeta abbozza un’opera di cui ci è rimasta solo la traccia in prosa, Stella dell’Alpi, in cui spicca la figura di una donna, accanto ad immagini naturalistiche (“Il poeta avrebbe voluto che il guardo vostro, che ora era smarrito dietro idee dolenti, della dolce gioventù abbandonata, sorpreso e rianimato si rialzasse alla vista del fiume precipite (cascata). Precipita dall’alto tonante rimbalzante e spumante, candido e puro, così come la poesia”…)[38]; ma non mancano i soliti riferimenti nazionalistici (“Vive in queste alpi lo spirito d’Italia e di Roma, vive il fervore dei petti devoti a morte libera…)[39], troppo spesso capaci di inficiare l’esito finale. Forse non è stato un male se l’opera è rimasta solo un appunto.
Per noi conta soprattutto sottolineare che anche il centro lombardo fa comunque sentire le sue suggestioni su un poeta alla ricerca di vitali stimoli poetici.
Restano allo stato di frammento pure i versi In montagna, scritti nello stesso luogo, nel 1890, che riportano la data del 18 agosto e ai quali abbiamo accennato in precedenza. A leggerli, benché innominata, si indovina subito il riferimento alla Loreley, la fata-sirena cantata da Heine e cara alla fantasia carducciana, presente nell’Elegia del monte Spluga, di cui i frammenti costituiscono una lontana anticipazione (“Tra i giovini abeti su ‘l giovine Reno/ Cantando la bella si venne a posar./ Su ‘l capo a la bella più il cielo sereno,/ La selva a’ suoi passi più florida appar”, vv. 1-4).
Pochi mesi dopo la comparsa nella sua vita di Annie Vivanti, il poeta tenta di realizzare una lirica nella quale, nelle due successive strofe, gli gnomi e le ondine si accompagnano alla presenza della Loreley.
Il carattere di lontana anticipazione sembra rafforzato dalla lettura dei versi successivi, nei quali l’atteggiamento dell’io poetante verso le fantastiche creature ricorda quello dell’Elegia, dove subisce l’aspro rimprovero delle fate; altri interessanti riscontri, infine, si possono fare con le ultime parole, appena abbozzate, con il loro riferimento ad alberi ricorrenti, come abeti e pini.
Dell’altra lirica In montagna, con il suo inizio solenne, “Monti de la patria, vi riaffidiamo i virgulti/ che su le vostre cime arbori grandi a l’aure/…”, ci interessa in particolar modo la data, ossia il 28 agosto 1898. E’ il periodo in cui Carducci, impegnato nella realizzazione degli idilli alpini, è a Madesimo e pochi giorni dopo avrebbe scritto Sant’Abbondio e l’Elegia del monte Spluga.
La composizione, legata all’opera di rimboschimento della zona, si rivela subito un tentativo fallito. Notiamo ugualmente, però, la presenza delle costanti descrittive di Giosuè, i monti e il corso d’acqua, che qui è il torrente che ha lo stesso nome del paese, detto anche Scalcoggia.
Nel finale dell’abbozzo si legge prima il verso “questa valletta dove trepida il Madesimo in fuga”, poi troviamo queste parole: “Dove trepido affretti, o picciol Madesimo, l’acque/ pure d’argento?…”. Pochi giorni dopo, scrivendo il sonetto ispirato al santo patrono del luogo, Carducci riprenderà l’immagine: “…il Madesimo cascante/ Passa tra gli smeraldi” (vv. 7-8).
Ogni occasione è buona, insomma, per questo poeta che nella sua tarda maturità artistica sollecita l’abbraccio della Musa e che due anni prima aveva steso sull’agenda del 1896 un breve pensiero poetico, non sfruttato ulteriormente, traendo spunto da una gita estiva, parlando del “Coro delle nubi che salgono dai ghiacciai e avvolgono le vette degli Spitz a lato del Bernina”[40].
In questa ricerca, dunque, egli si ispira spesso al mondo della montagna, la cui presenza abbiamo seguito, nelle sue tappe più significative, dagli anni Ottanta, da quando le sue vacanze estive si pongono sempre più sotto il segno dell’alta quota, in poi.
E la stessa tematica ricorre a più riprese anche in altre liriche confluite nell’ultima raccolta, Rime e ritmi. Il Natali ha compendiato il tutto scrivendo che “Naturalmente la poesia alpina deve cercarsi anche nelle grandi odi eroiche Piemonte e Cadore: ma in queste il paesaggio fa da sfondo alla rievocazione storica: ‘Sol de le antiche glorie, con quanto ardore tu abbracci/ l’alpi ed i fiumi e gli uomini!’”[41]. La citazione finale è tratta da Cadore (vv. 65-66).
Accanto al patriottismo c’è la ricerca dell’eccessiva solennità, che spicca nell’attacco della prima delle due opere succitate, che a noi viene subito in mente: “Su le dentate scintillanti vette/ salta il camoscio, tuona la valanga/ da’ ghiacci immani rotolando per le/ selve croscianti” (vv. 1-4).
Possiamo dire, in senso più ampio e vedendo la questione dal punto di vista che ci interessa in modo particolare, che il rilievo assoluto del tema montano spesso si accompagna alla freschezza, alla concentrazione descrittiva, alla felice brevitas, come appunto negli idilli alpini, prezioso parto della meditazione e della stanchezza esistenziale dell’uomo Carducci, giunto alle soglie del nuovo secolo, ma anche frutto di una felice sintesi tra costanti e novità, che non deve meravigliarci più di tanto, se solo ci si accosta all’opera di Giosuè senza preconcetti.
Il tragitto dell’ultimo Carducci non porta il poeta al di là del guado, non lo fa sconfinare, cioè, nella cosiddetta poesia decadentistica, ma non c’è dubbio che al raggiungimento di questi esiti artistici, pur nella varietà delle opere del ciclo alpino, abbia contribuito in qualche modo, più o meno consciamente, anche il nuovo clima poetico, attento alle corrispondenze, al senso del mistero, alle zone insondabili dell’anima, alle sfumature e alle gradazioni più sottili. Un clima il cui simbolo sarà rappresentato, a livello nazionale, in primo luogo dall’allievo Pascoli.
Nel complesso, Carducci non si snatura affatto, ma nello stesso tempo riesce a soddisfare i nostri gusti di uomini che hanno attraversato il Novecento: ci sembra, questa, una semplice constatazione, da adattare caso per caso alle singole composizioni alpine, ma che può fungere come da bussola prima di iniziare un’analisi più dettagliata e specifica di queste sei significative testimonianze dell’ultimo periodo.
[28] Scrive il BIAGINI, a proposito del 27 agosto, in op. cit.: “Rientrato, infatti, al Royal, scrisse, quel mattino stesso, ‘avanti le 11’, come puntualmente annotò, i due stupendi idilli, Mezzogiorno alpino e L’ostessa di Gaby, ritoccati e pubblicati più tardi nella ‘Nuova Antologia’ del 16 novembre 1898: piccoli quadri a tenue e perfetto disegno e colore” (p. 714).
[29] Ivi, p. 776.
[30] LEN, vol. XX, p. 167.
[31] Ibidem.
[32] LEN, vol. XIII, p. 5.
[33] G. CARDUCCI, Degli spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi, Zanichelli, Bologna, 1898, p. 45.
[34] Ivi, p. 46.
[35] M. VALGIMIGLI, Il Carducci a Piano d’Arta, in Uomini e scrittori del mio tempo, Sansoni, Firenze, 1965, pp. 111-114.
[36] Nelle citazioni dei versi di Carducci, per la completezza, ci rifacciamo a Tutte le poesie, a cura di P. Gibellini, note di M. Salvini, Newton Compton, Roma, 1998, rendendo minuscola, com’è d’uso, la lettera iniziale di verso non preceduta da punto nelle poesie barbare.
[37] Opere di Giosue Carducci, Edizione Nazionale, Zanichelli, Bologna, 1938, vol. XXVIII, p. 274.
[38] G. CARDUCCI, Tutte le poesie, a cura di P. Gibellini, note di M. Salvini, cit., p. 841.
[39] Ivi, p. 842. Albano Sorbelli, nel Catalogo dei manoscritti di Giosue Carducci (Bologna, 1921, vol. I, p. 61), ricorda anche dei “Carmi dell’alpe”, “Progetti di poesie”, relativi allo stesso 1888 (“Quattro fogli vol. con prove e appunti e inizi e frammenti di poesie varie”).
[40] Opere di Giosue Carducci, cit., 1940, vol. XXX, p. 172.
[41] G. NATALI, L’ultimo Carducci, in Fronde sparte. Saggi e discorsi, Padova, Cedam, 1960, p. 202.