IL GREGGE NERO
La tonalità cupa domina sin dal titolo, in questa composizione, ancor più che ne La magalda. Un uomo particolare è l’improvvisato pastore, un misterioso terrazzano, di cui non sappiamo molto, ma che è senza dubbio privo di principi morali e disposto a tutto; questi sceglie la notte per le sue azioni e per portare al pascolo il gregge nero, che diventa tutt’uno con le tenebre della campagna.
La pecora nera, com’è noto, si è sempre caricata di significati negativi; qui ne abbiamo un intero branco, in un ossessivo ripetersi di elementi appartenenti alla stessa sfera simbolica.
E’ una fantasia poetica notturna di indubbio effetto, in un paesaggio desolato e degradato, alla cui resa contribuisce anche la forza espressionistica di certi termini come s’aggiacca, grufolando, grifo, fino alla sozza melma e alle putride marane.
Alle fulve vampate delle stoppie[1]
in Puglia ricompare il gregge nero.
Non ha pastore: un terrazzano[2] bieco
di rapina e di frode giù lo mena[3]
dal monte, in una nube soffocante 5
di polvere. Né rete lo protegge
nella notte, né ovile mai l’attende:
dentro la sozza melma dei canali,
nel mezzo delle putride marane[4]
trova lo stazzo[5], e quivi al solleone 10
s’aggiacca avvoltolandosi[6] nel fango,
ché il giorno è la sua notte. Si fa sera,
e nell’ombra si leva, e grufolando[7]
al pascolo notturno, ecco, s’avvia
torpido, al grido lugubre e selvaggio 15
del terrazzano che in quell’ombra cova
la sua preda. Da lungi[8] l’accompagna
il solo canto della rana spersa
negli stagni. Così va il fosco branco
a notte, sulla terra abbruciacchiata, 20
in cerca della spiga. Ché il colono[9]
il suo oro nei sacchi[10] già provvide
a trarsi entro le case, e poscia fuoco
diede alla paglia. Alle riarse scorie[11]
l’uomo di mota[12], torvo nella sua 25
miseria, spinge il ghiotto grifo[13]. E pie[14]
le stelle lo spettacolo sì triste
rimirano, dall’alto, di quel nero
gregge che nella Puglia ridiscende,
alle fulve vampate delle stoppie[15]. 30
[1] Alle fulve... stoppie: quando si alzano in cielo le vampate giallo-rossicce (fulve) prodotte dalle stoppie, dopo la mietitura, in piena estate. Il poeta circoscrive così il periodo dell’anno in cui riappare questo strano gregge.
[2] terrazzano: con questo nome si indicava “una categoria di diseredati, tenuta ai margini della società, che viveva di caccia e di raccolta di piante commestibili e di frutti spontanei, ma anche di piccoli furti e di espedienti ai limiti della legalità. Gente restia ad un normale lavoro bracciantile, ma dedita ad attività ben più faticose e pericolose” (V. Russi, Prefazione a C. Pistillo e A. Littera, ’U Tërrazzènë, Libreria Notarangelo, San Severo, 1996, p. 3). La definizione sembra adattarsi ai caratteri del personaggio, di cui in verità si dice ben poco, ma che comunque ama la notte e viene descritto come un tipo torvo.
[3] mena: conduce.
[4] marane: zone dove l’acqua ristagnava, sparse in varie parti della Capitanata, poi bonificate (putride, maleodoranti).
[5] stazzo: recinto all’aperto per il bestiame.
[6] s’aggiacca avvoltolandosi: si distende rotolandosi.
[7] grufolando: frugando con il muso a terra in cerca di cibo.
[8] lungi: lontano.
[9] colono: contadino.
[10] sacchi: ricordiamo ne Il Pane la bella immagine del protagonista che “Contemplava con gli occhi suoi paterni/ i sacchi messi in fila ad uno ad uno:/ pochi, pochi e ripieni di sementa!” (vv. 47-49).
[11] riarse scorie: le spighe bruciate, quel che rimane dopo la bruciatura delle stoppie.
[12] l’uomo di mota: l’uomo insensibile, privo di sensibilità morale.
[13] ghiotto grifo: l’avido, affamato muso del gregge.
[14] pie: pietose.