“IL DRAMMA SREGOLATO” DI STEFANO CAPONE

 

 

L’ultimo lavoro di Stefano Capone, “Il dramma sregolato”, edito dalle Edizioni del Rosone di Foggia (pp. 159, euro 15), non è un testo facile, di quelli che si leggono per diletto, specie in questa torrida estate, ma è ugualmente un’opera significativa, nella quale il lettore attento ritrova molto della vita e delle esperienze intellettuali dell’autore.

Lo stesso colore della copertina, a pensarci bene, con la sua gradevole tonalità di rosso, sembra ricordarci la carica vitalistica di Stefano, che gli ha permesso di superare tanti ostacoli fisici, fino all’ultimo stop imposto dalla Natura. 

         Il libro in questione nasce dalla collaborazione ad un progetto universitario, al quale ha fornito il suo contributo in qualità di contrattista all’Università di Arezzo, sede staccata dell’Ateneo di Siena. Il sottotitolo del lavoro, in particolare, “La poesia da teatro nei libretti e nei testi di teoria e critica della letteratura della prima metà del Settecento (1696-1755)”, chiarisce vari dubbi sull’oggetto della trattazione.

Ci troviamo nel regno del melodramma, di quell’incontro difficile e complesso, se non addirittura assurdo, tra parola e musica. In Italia fioccano le discussioni e le polemiche. Ci sono i riformatori da salotto, che non si rendono conto dell’importanza del pubblico in questa realtà spettacolare, ci sono gli spregiudicati, che cavalcano la tigre del momento, ci sono i grandi nomi, come Metastasio, e i tanti letteratucoli da strapazzo.

Capone, mostrando una conoscenza specialistica dell’argomento, citando trattati e versi, offre un quadro ampio e nello stesso tempo approfondito e non arbitrariamente compendiato. In quella realtà, in cui brilla l’astro di Napoli, c’è davvero di tutto.

Nel secondo capitolo, che ha lo stesso titolo del libro, appunto “Il dramma sregolato”, l’autore ricorda: “I librettisti di primo Settecento… avevano compreso che il punto di forza dell’Opera, serie e comica, era la sua capacità di smentire le regole e le convenzioni correnti. La formula di scrittura di un libretto d’opera non seguiva gli insegnamenti di Aristotele, Orazio e della lunga stirpe di autori che avevano scritto sulla poetica: obbediva alle attese e ai bisogni del pubblico, alle necessità del mercato teatrale, ai desideri e ai capricci degli attori-cantanti, alle sempre più pressanti esigenze dei compositori”. Insomma, il pubblico conta quanto i cantanti e le regole (di qui il titolo del libro) vengono tranquillamente messe da parte, nella ricerca, spesso casuale, del consenso e del successo.

Di certo, il pubblico voleva divertirsi, amava le invenzioni scenografiche e i mutamenti di fondali, andava in estasi di fronte ai virtuosismi dei cantanti, tra cui i castrati, dunque non andava deluso. I libretti dei melodrammi dovevano essere sensibili a molte esigenze, e a tal proposito Capone si sofferma anche sul modello di Pietro Metastasio, il sovrano incontrastato di quel periodo, amato ed omaggiato, con le sue straordinarie ariette. Re di un’epoca, anche lui però finirà nella polvere, qualche decennio dopo, con la diffusione della sensibilità illuministica.

         Capone, nel complesso, fornisce un quadro informato e vivace di quel primo Settecento teatrale a lui così caro, aggiungendo anche delle utili note bibliografiche. Leggere le sue pagine è un modo per risentire la sua lezione, al di sopra del freddo silenzio della Morte.

       

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