V- DAL MONDO INTERNO A QUELLO ESTERNO
Il primo capitolo del libro, Le cose dette e le cose non dette, contiene già in nuce tutti gli sviluppi futuri dell'uomo Gaetano ed offre un notevole saggio delle qualità dello scrittore, che delinea il suo progressivo aprirsi al mondo 6.
Il valore ideale dell'esperienza di vita del protagonista è rimarcato sin dall'attacco del romanzo, con l'immagine di Specchia a cinque anni. Non si tratta, pertanto, di un'attenzione relegata nel passato, priva di agganci con il presente, ma, al contrario, siamo di fronte ad un uomo che ha lasciato dei vivi segni della sua presenza, anche se "lui non è più" (pag. 9).
Dopo aver voluto lanciare al lettore un inequivocabile segnale, che ritorna a più riprese, Casiglio inizia a seguire il cammino che porta Gaetano a contatto con la realtà, con il mondo esterno.
Nel capitolo d'esordio dominano la famiglia e le figure legate al palazzotto paterno, ma la visuale si allarga pian piano, e così, dopo la cruenta intrusione del prossimo in casa Specchia, con l'accoltellamento del padre, Gaetano passa dall'osservazione di una rivolta popolare, quindi dal mondo esterno visto dall'interno, al diretto confronto con l'esistenza del paese e con i misteri del mondo femminile, fino all'iniziazione sessuale della fine del secondo capitolo.
L'ultimo passo di questo apprendistato esistenziale sarà l'uscita dal porto sicuro del paese, per salpare alla volta della capitale, dove si iscrive all'università, nel terzo capitolo.
Membro di una famiglia benestante della provincia meridionale, il giovane protagonista ha tutto ciò che la gente comune potrebbe desiderare per essere felice, ma la complessità del suo carattere lo rende inquieto, incapace di calarsi, come il fratello, nei panni del padre, avvocato civilista e dedito agli amori ancillari. Gli stessi muri di casa, massicci e robusti, sembrano un invito alla quiete, come la luce verde che splende sul tavolo del capofamiglia, a sera.
Ma nell'immagine infantile d'apertura ci sono anche i due differenti volti di Gaetano, che tradisce la sua ansia "di capire qualcosa del mondo in cui gli toccava di vivere" (ivi), anche se i più, al contrario, scorgono in lui solo "una certa aria di coniglietto infreddolito" (pag. 10).
Nella descrizione di quest'ambiente incontriamo le pagine che maggiormente risentono del fascino del passato, della malinconia che nasce di fronte a ciò che appartiene alle generazioni immediatamente precedenti. Qualcuno ha parlato, in modo opportuno, di "vecchie fotografie, stampe di un'epoca antica che risvegliano trame della memoria e della fantasia"7.
In questo mondo di laureati, ma non di appassionati ricercatori, il Nostro impara a capire l'importanza dello studio, dopo aver constatato che i volumoni di economia che facevano bella mostra di sé nella biblioteca avevano le pagine intonse. Egli "si propose di contribuire a smaltirli" (pag. 12), e in questo ingenuo proposito c'è la sua vita di docente universitario.
Ma nel prendere atto di uno scollamento tra apparenza e realtà, tra faccia esteriore e nascosta delle cose, c'è anche il particolare valore che Gaetano darà all'economia, come scienza preposta a cogliere gli sviluppi potenziali della realtà.
La fine del primo capitolo chiarisce definitivamente il senso del suo titolo: "altro era quel che vedeva e sentiva, altro quel che c'era sotto, una trama di significati che in parte riusciva ad afferrare con la mente, in parte confusamente avvertiva, come veri, come più veri di quel che vedeva e toccava" (pag. 16).
Il coniglietto infreddolito sente il bisogno di sgombrare il campo da ogni elemento esteriore o posticcio e questo significherà, in primo luogo, comprendere i limiti della parola, troppo spesso ridotta a semplice copertura di una ben diversa realtà.
Si pensi alle frasi che risuoneranno sulla bocca dell'onorevole Specchia, il lontano parente di Gaetano: "Combatteremo il pregiudizio, ma difenderemo il giudizio; avverseremo la superstizione, ma rispetteremo la fede sincera che alberga nel cuore degli umili, perché, sia chiaro a tutti, noi amiamo gli umili, e ci fortificheremo del loro consenso per combattere civili battaglie" (pag. 54).
Ambiguità, malafede, egoismo, trame: tutto passa attraverso il verbo, mentre la solida realtà resta immutata, lontana da questi discorsi.
Per Gaetano, quest''uso-abuso è un doloroso punto di meditazione, un rovello continuo. Egli "si accorgeva che le parole svuotano i fatti, più spesso che non li rivestano. E si concentrava sul muto discorso delle cose" (pag. 55), ma questo era alla base di continui fraintendimenti ed ostacoli perché non è facile attuare i propositi, essere un testimone più che un retore, fare del bene anziché sembrare di volerlo fare. Un dramma che ritornerà nel principe di San Marzano, ne La Dama forestiera.
Politico che diffidava delle parole, docente che rifiutava ogni enfasi, convertito privo del santo zelo che rende più visibili le vie del Signore, Specchia demistifica di fatto il valore della parola, e quindi delle ideologie, pagandone lo scotto necessario.
Il giovane Gaetano, "con quella sua testa che aveva il vizio di riflettere" (pag. 18), vivrà con particolare dolore, nel secondo capitolo, una fase comune a molte persone, la scoperta dei limiti del padre, dell'ipocrisia e delle false convenzioni che riguardano anche casa Specchia; in seguito, però, l'indagine si allargherà all'intera ceto sociale d'appartenenza, ponendolo in una posizione particolare, di borghese che accetta solo una parte dei valori ricevuti e desideroso, nello stesso tempo, di fare qualcosa per attenuare le differenze di classe esistenti.
Un compito che, in modo ancora vago, gli giungeva dallo spettacolo di una rivolta terminata con la morte di un innocente, un caramellaio coinvolto per caso negli scontri, e che il protagonista si propone di onorare con la solita coerenza.
Il cammino successivo di Gaetano, una volta di più, dopo i due primi capitoli, non è che uno sforzo di chiarificazione, lo sviluppo di premesse già poste con una notevole abilità artistica.
Dall'esterno, del resto, gli arrivavano anche dei segnali sui pericoli ai quali si sarebbe esposto con un sovvertimento troppo radicale del suo mondo. Il terzo capitolo, Di un sepolcro imbiancato, di un pranzo andato a male, racconta, infatti, dell'avventura con Agatina Diflavio, conosciuta a Roma, torbida e corrotta, malgrado l'apparenza, che, nel ricordo, farà risaltare ulteriormente le doti di Carmelina Stasiano, la donna che sposerà seguendo le regole del suo ambiente, dopo laboriose procedure prima di arrivare ad un incontro e, poi, alle nozze.
Casiglio descrive, divertito, il tutto, con i suoi quadri d'insieme così vivaci e persuasivi, specie per chi è nato e cresciuto in ben diversi periodi. Si legga questo passo sulla condizione femminile:
Bisogna dire che settant'anni fa l'emancipazione della donna era lontana dal paese di Gaetano: le rare studentesse erano fiori rari, amorosamente curati e vagheggiati dai compagni di scuola; le ruffiane e le meretrici costituivano una forza decisamente conservatrice; le impiegate attendevano la guerra mondiale, per spuntare rade in qualche ufficio e sposare poco dopo il diretto superiore, se celibe; le infermiere facevano arricciare con ragione il naso alla gente, mentre le pettinatrici, antenate delle parrucchiere e delle estetiste, erano solo una minaccia della pace domestica, per motivi spesso divergenti ed opposti. L'iniziativa femminile, la franca assunzione di responsabilità, la visione pratica, quasi americana, dei rapporti umani erano privilegio di una sola categoria, delle sensali di matrimonio (pag. 38-39).
Quando la parentesi pre-nuziale, venata di una sottile ironia, data dai cambiamenti intercorsi, si chiude con le nozze, Casiglio non rinuncerà ad una frecciata polemica al suo Manzoni, ricordando che, in fondo, il matrimonio "è sempre e solo un punto di partenza" (pag. 46).
VI- LA PAROLA, L'AZIONE E LA POLITICA
Descrivendo la vita di Gaetano, e quindi seguendo il doppio binario dell'impegno universitario e del rapporto con il suo paese nativo, lo scrittore non perde l'occasione per offrire al lettore degli importanti stimoli di riflessione.
Nel capitolo Nozze ed alloro, così, leggiamo delle parole illuminanti sui limiti di certe narrazioni, che operano una divisione tra una parte "raccontabile" (pag. 47) ed una "che non fa racconto" (pag. 46-47), impostando l'analisi della vita soltanto sulle "commissioni" (pag. 47) e non anche sulle "omissioni" (ivi), ossia su quello che l'uomo realizza, mette in atto, tralasciando il tempo speso nel pensare, nel cercare stimoli e motivi, nel costruire, abbattere e ricostruire il castello della propria esistenza.
E' facile soffermarsi sulle vicende sfolgoranti, luminose, ma è duro indugiare su "Gaetano che pensa, Gaetano che si convince, Gaetano che per lustri e decenni piega le operazioni della sua vita a riflessioni e convinzioni" (ivi).
Questa volontà di non tralasciare nulla nasce da un'esigenza di verità, spiacevole quanto si voglia, ma indiscutibile. L'eccessiva sicurezza, potremmo aggiungere, è degli stupidi, anche se Specchia non sempre riesce a salvarsi dall'eccesso opposto.
Misurato e schivo, il protagonista non si smentisce neppure nel suo lavoro accademico, dando alle stampe pochi lavori, tutta sostanza e nello stesso tempo in grado di attirare solo quanti cercano una guida sicura, lontana dalla vuota ostentazione dei personaggi che si aggirano nel mondo universitario.
Ma ora il romanzo si concentra soprattutto sulle prime esperienze politiche di Gaetano, alle prese con l'onorevole Giuseppe Specchia. Qui ritroviamo uno spaccato fedele della vita politica d'inizio secolo, in cui predomina una concezione personalistica e trasformistica, con la consequenziale formazione di solide clientele.
Specchia diventa consigliere provinciale e direttore di una rivista locale, eppure i limiti della sua azione appaiono subito vivi, molto prima del fallimento economico del lontano parente e del suo ritiro dalla scena. Immesso in un congegno apparentemente perfetto, studiato per favorire la rielezione dell'onorevole, lo studioso non lesina sforzi, però la sua formazione di economista gli fa intravedere con sicurezza il vuoto che lo circonda.
Nell'importante capitolo Come rifare un muro, Gaetano, ascoltando il fittavolo Mariano, che gli traccia il punto sulla situazione, ne apprezza il realismo, la concretezza, trovando materia per illuminare il proprio pensiero di conservatore, portato a "credere che nulla possa essere tanto nuovo da annullare ciò che già c'è;...nessuna scelta tale da toglier senso alle possibilità lasciate andare, nessun centro che non possa essere periferia..." (pag. 57).
E' l'idea di un concreto cambiamento che è possibile operare, il cui modello ci viene dalle cose e che si riassume nell'immagine del muro, del quale abbiamo parlato nel primo paragrafo, che può venir ricostruito senza buttarlo giù, con risultati migliori.
Forte di questa visione nient'affatto statica e dell'aiuto di una rivista Gaetano cerca di diventare, grazie all'investitura dell'onorevole ("bisogna agitare l'atmosfera, smuovere l'ambiente, far respirare aria nuova; tu puoi essere il teorico di questo rinnovamento; non ti vedo sulla bancarella, ma dietro allo scrittoio", pag. 63-64), il teorico del rinnovamento.
L'articolo apparso sul "Don Chisciotte", riportato all'inizio del capitolo La guerra parallela, riassume fedelmente il suo impegno. La sua analisi è pessimistica ma precisa, parte dalla mancanza di un serio indirizzo da parte del Governo nazionale, al quale fa riscontro il disinteresse del paese reale, ad ogni livello, fino a quello municipalistico, dove non ci sono idee, non ci sono valori, ma solo scontri tra fazioni opposte.
Dal vicolo cieco si può uscire solo con l'"educazione civile" (pag. 68), delegata per forza di cose ai partiti, o, meglio, alla moralità dei suoi rappresentanti: "senza la moltiplicazione dell'esempio, senza il vigore delle convinzioni e il coraggio di esser minoranza, non v'è da sperare progresso" (ivi).
Ritroviamo, quindi, il ruolo del testimone, che esce dalla corrente per offrire lezioni di vera cultura di vita, in qualsiasi circostanza. Una via obbligata, alla quale non viene meno, pur senza mai rinunciare ai suoi dubbi angosciosi, gli stessi che lo portano da don Giustino Fortunato a Rionero.
E' un episodio tra i più belli del libro, caratterizzato da uno stile che sembra adeguarsi perfettamente al contesto, in cui la parola diventa dura, scabra, come il Sud lucano che si presenta al protagonista. "Meglio il nulla", gli ripete don Giustino, con la secchezza di un oracolo, "anziché chiacchiere e promesse vane e contraddittorie" (pag. 64), e questa lezione gli serve da stimolo a non perdere mai di vista la concretezza, confondendo magari lo zio onorevole con un vero innovatore.
La seconda parte del capitolo La guerra parallela affronta un tema quanto mai attuale ma in fondo abbastanza vecchio: l'inquinamento dei mass-media, delle fonti di informazione, che nel nostro caso si riducono alle testate giornalistiche. Controllate strettamente dai potenti locali, basate sull'uso spregiudicato di menzogne e colpi bassi, sono la cartina al tornasole, specie, ma non solo, nella provincia meridionale, dell'assenza di una educazione civile e, nello stesso tempo, in un circolo vizioso, aggravano il male già esistente.
La serietà e lo sforzo di Gaetano, in questo quadro, sono davvero donchisciotteschi. Egli vorrebbe dare dignità alla pubblicistica, evitando ogni speculazione, riducendo ad uno stelloncino quanto per la testata avversaria costituiva materia per un titolone d'apertura, ma dovrà accorgersi casualmente che le rese della rivista, anziché finire ad amici dell'onorevole, come gli avevano assicurato, venivano utilizzate per incartare latticini.
Resta da capire cosa sarebbe successo se l'onorevole Specchia avesse continuato per la propria strada senza intoppi, ma il destino si preoccupa di dare uno scossone alla vita dell'economista, con il fallimento del lontano parente, le dimissioni dal consiglio provinciale e l'accettazione di un incarico universitario.
La fuga dal paese, in questo modo, rappresenta semplicemente l'occasione per continuare a serbare fede ai suoi ideali, evitando una resa senza condizioni.
VII- IL DOLORE, LA GUERRA E LA FEDE
Il capitolo I padri non sopravvivano ai figli, per lo sforzo di penetrazione psicologica e per la sua delicatezza, richiama le pagine ispirate dal rapporto tra Gaetano ed il padre. Ora, scomparso l'avvocato Specchia, nel rispetto della naturale alternanza tra le generazioni, il protagonista sperimenta su di sé la tragedia della violazione dell'ordine consueto.
La morte del figlio, che arriva proprio in un momento di ritrovata pace, sembra quasi un brusco richiamo al suo destino di uomo tormentato, che permea ogni cosa del dramma che sta per compiersi.
Le descrizioni, così, si susseguono scolpendo la terribile monotonia del pensiero dominante. Si passa dalle medicine, di ogni colore e di ogni forma, agli oggetti sparsi in disordine per la casa, fino alle tende spiegazzate dal vento. L'esterno, poi, non offre alcuna via d'uscita consolazione ("Giornate di sole, luminose, brillanti, che non lenivano la tristezza, ma l'accrescevano; cieli grigi e cupi, desolatamente contrastanti col cuore oppresso", pag. 82), e meno che mai, ovviamente, la visione del bimbo, che non sorride più.
In questa commozione trattenuta troviamo il marchio di fabbrica di Casiglio, che prosegue alternando pensieri ed osservazioni, fino a completare il capitolo con una nuova, bellissima analisi, questa volta dedicata ai rapporti tra i due sposi, dopo la scomparsa del bimbo.
La crisi coniugale, quando l'amore "ci appare inganno della specie" (pag. 84), lascia a fatica il posto ad una ritrovata intimità, che dona spessore interiore a Carmelina Stasiano, colta nella sua intimità di donna.
In seguito, il romanzo ci presenta una figura femminile ben diversa, quella di Elisa San Martino, piemontese, laureata e malmaritata con un esportatore di vini. Complice la prima guerra mondiale, Gaetano la incontra all'università, "disinvolta in apparenza e lievemente sorridente" (pag. 94), ma intimamente tormentata.
Proprio la storia della frequentazione tra i due conferma il carattere del professore, attratto da lei, ma incapace di tradire la moglie, perpetuando il modello paterno, al quale aderisce in tutta tranquillità il fratello di Gaetano, con il quale si confida. Incapace di fingere, insomma, ma anche di gustare la vittoria della coerenza.
La guerra, però, oltre a mettere alla prova la fedeltà di Specchia, diventa un ulteriore banco di prova del suo conservatorismo. Di fronte alle radiose giornate di maggio e all'esaltazione della sola igiene del mondo, il Nostro ragiona usando i consueti termini scientifici e rifiutando il rischio di un salto nel vuoto.
Per lui la guerra è un evento traumatico che blocca il progresso della nazione, ne compromette l'economia e segna, ancor prima, la morte di tante persone ignare. Trento e Trieste non valgono le sofferenze che lo circondano e che non si esauriscono con gli eventi bellici, ma sono fantasmi che aleggiano ancora a lungo.
Vista dalla parte delle cose, infatti, la guerra assume una tragica serietà, che nella gente comune finisce per intrecciarsi con gli effetti della propaganda, e quindi con il condizionamento voluto dall'esterno, e "il loro tortuoso groviglio avrebbe pesato, per altri vent'anni buoni, sulla vita di tutti, in tempo, giusto in tempo, per far posto ad una nuova guerra" (pag. 99).
Anche il secondo conflitto bellico viene letto allo stesso modo, dall'interno, al di sotto dei proclami reboanti, con altri passi significativi, in cui l'angoscia diventa presenza quotidiana, con l'aggravante di un coinvolgimento più diretto della gente, ma anche dello scrittore (si pensi al capitolo I mandarini ).
Ne La via di Damasco aggiungiamo ancora un tassello alla personalità di Gaetano, che riscopre la fede. Apparentemente è un controsenso, questo ritorno ai valori tradizionali, mentre l'Italia, dopo la fase bellica, precipita in piena crisi, ma in fondo l'uomo non modifica che in piccola parte le sue abitudini.
E' un convertito senza zelo ed ostentazione, che si distingue da tanti altri celebri colleghi, a partire dallo stesso San Paolo. Questa sua ritorno nel grembo della Chiesa, che fa tanto discutere, ha un senso solo in rapporto all'uomo e al suo cammino di salvezza, è in armonia con la sua coerenza, eppure, passando attraverso i pensieri del prossimo, finisce travisato.
Nella fede Gaetano trova sollievo alla sua solitudine, scavalcando lo spazio ed il tempo per ritrovarsi "inserito in una vera folla di vite umane per le quali i silenzi e le scelte operate fuori della convenzione corrente erano stati cibo quotidiano" (pag. 121). Penetrato all'interno della chiesa, isolato dallo spesso tendone di cuoio, egli sa darsi ragione delle sue scelte e la voce del mondo, che lo vuole inetto o modesto, viene sopraffatta dalla considerazione che la sua vita, così dolorosamente sofferta, ha un suo valore, una sua direzione.
Nell'ambito ecclesiastico, del resto, trova un amico per affinità, quel don Alfonsino Faralla che, se "non sapeva inchiodare in testa agli altri le cose in cui pure credeva" (pag. 119), aveva comunque sempre una citazione per lui.
VIII- GLI "AMBIGUI" E I "MANDARINI"
Il conservatore è un romanzo-saggio e di questa caratteristica ci ricordiamo una volta di più nelle pagine dedicate al periodo fascista, "Il tempo delle ambiguità" (pag. 126), definizione che dà il titolo ad un capitolo.
Il punto di vista del protagonista si unisce saldamente a quello del narratore, descrivendo un ordine nuovo che passa, sostanzialmente, di striscio per il paese nativo di Gaetano, deludendo le attese, e con in più l'imperdonabile aggravante di non aver abbattuto le vecchie stratificazioni sociali.
Il ventennio nasce in un modo semi-serio, con la "scoperta della volontà, fatta da più di uno contemporanemente" (pag. 121), e con un eroe come Santobuono, che è, poi, uno dei personaggi sui quali più si concentra l'ironia dello scrittore.
La reazione alle violenze dei rossi permette la nascita del fascismo, visto da molti come una liberazione, ma il rapporto tra gli italiani e il Regime appare tutt'altro che lineare. Si legge, così, che "a sud della capitale la generica adesione ai princìpi dell'ordine nuovo si trovò presto mescolata a un atteggiamento di estrema riserva nei confronti delle manifestazioni spicciole e prossime del medesimo" (pag. 126).
Il culto del Capo è fuori discussione, la gente confida in lui, ma molte cose non quadrano, a cominciare dall'ascesa della piccola borghesia, che non si compie, mentre questa si consola guardando le classi poste al di sotto di lei nella scala sociale.
Un'ambiguità che, a livello di singoli cittadini, è fatta di viltà ed opportunismi, del piacere di essere nella norma, sfruttandola, se possibile, salvo poi palesare riserve mai evidenziate prima.
Nella visione tecnica di Gaetano, inoltre, il Regime ha il torto di condizionare lo sviluppo dell'economia, provocando danni, visto che "il risparmio...aveva bisogno di libertà, per essere producente" (pag. 129).
In questo particolare contesto, egli sceglie ancora una volta la via più difficile, lontana sia dai profittatori del Ventennio che dai fautori di una opposizione ideologica, fatta di libri e veline vietati, di riunioni segrete, ma in fondo anch'essa sterile, ai fini di un concreto cambiamento.
La scelta della resistenza passiva, quindi di un'opposizione incarnata nei doveri del suo ufficio di docente, nei semplici atti quotidiani, gli procura l'ostracismo del Regime, gli toglie la possibilità di scrivere sui più importanti organi di informazione, ma non gli permette di aver alcun merito verso gli anti.
Lo scrittore in queste pagine fa più che mai del suo protagonista una pietra di scandalo. Per tanti egli è onesto ma innocuo e anche la storia, vuole dirci Casiglio, ha indugiato in modo eccessivo sui modi della protesta ideologica, ma ha sottovalutato il significato di una via media ma coerente, che ha solo il grave torto di non essere appariscente.
Se Gaetano è la continuità fraintesa e poi emarginata, qual è la continuità nel potere? A questa importante domanda si risponde nel capitolo I mandarini. La scena si sposta nell'università innominata, Bari, dove sfilano tanti giovani studenti con il loro carico di speranze ed ambizioni.
L'occhio attento del docente distingue all'inizio due categorie, quella dei regnicoli e quella dei giovani dediti alla fronda ideologica. I primi vengono dall'interno della regione e si adattano al nuovo regime; i secondi, più svegli, amano i gesti eclatanti, forti, e non si accontentano della sostanza umana di Gaetano, ma desidererebbero "la frase che egli non avrebbe mai pronunziata, l'espressione di rottura, la battuta incriminabile, che ne avrebbe fatto un idolo momentaneo" (pag. 140), e che, però, non avrebbe modificato il senso della lezione di vita che il professore vuole suggerire, riuscendoci, evidentemente.
Di entrambi i gruppi si rimarcano, comunque, i limiti, visto che "Gli uni e gli altri aspettano che il mondo cambi...ma da sé " (pag. 143); i primi si adegueranno tranquillamente anche al nuovo stato di cose, una volta caduto il fascismo, i secondi accamperanno meriti di primogenitura, ma poi resteranno in disparte.
La vera risposta è offerta dai mandarini, ossia dalla classe degli intoccabili che, al livello più alto, si servono del potere, non lo servono, e che fanno adesso la propria comparsa nel romanzo.
E' un momento cruciale e che illumina la scomoda verità dell'esistenza di un nucleo dirigente del dopoguerra che è nato di fatto prima, che ha iniziato il suo cammino nel Ventennio fascista, continuando, senza eccessive difficoltà, un'ascesa irresistibile, unendo ideologia e tornaconto personale. Gente che, operando nell'ambito delle varie organizzazioni del Regime, delle testate giornalistiche e dell'università, avrebbe raggiunto i più alti vertici anche se, per assurdo, il fascismo fosse rimasto saldamente al suo posto.
Sono loro i veri continuatori, e non certo nel bene, i personaggi che hanno segnato, e in parte ancora segnano, gli anni che stiamo vivendo, e che nel romanzo rispondono ai nomi di Pretore, Pisanti e Sanleo, giovani e rampanti protagonisti del futuro.
Sono intelligenti e possiedono gli appoggi giusti, muovendosi tra Chiesa e fascismo. Il più importante, Sanleo, cortese ma deciso, si distingue per le dotte conferenze su temi come "pietas e religio" (pag. 145).
Lo scrittore fa incrociare le strade dei tre con quella di Specchia. Egli è un uomo solido e valido, che può dare molto senza chiedere nulla, pensano i mandarini, e ne sono attratti; il professore lascia fare, ma spera di poterli condizionare, di renderli migliori.
Egli sa bene che in alto, nella sfera del potere, ci sarebbe stato posto solo per loro, ma spera almeno nella fine dell'antico equivoco, lo stesso che aveva portato alla prima guerra mondiale, al fascismo ed al secondo conflitto bellico, ossia il predominio di una parte sugli altri, la strumentalizzazione dei più da parte dei meno.
Nel capitolo Le arance e i limoni Gaetano li preferisce ai vari maneggioni di paese, che mirano a sfruttare la situazione, ma le sue parole sono ricche di risvolti amari e alla fine vedremo che solo la morte lo salverà dalle grinfie dei mandarini, emblemi trasparenti della classe dirigente moderata del dopoguerra.
La democrazia auspicata dal professore resta solo sulla carta, nei programmi, nelle proposizioni ideologiche, ma non si realizza quel bisogno che Specchia faceva derivare dal mondo dell'economia. Egli parla di interdipendenza, di continuo scambio tra dare ed avere, di rifiuto di un "mondo di puri oggetti" (pag. 172), ossia di persone da sfruttare senza troppi scrupoli, ma tutto ciò resta lontano dai fatti, delegato ad un ipotetico futuro.
Il rapporto tra Gaetano e i mandarini non manca di aspetti anche complessi e non facili ad intendersi o ad accettare, ma poggia su di una profonda analisi della realtà italiana in una fase di difficile transizione.
Maggiori soddisfazioni gli arriveranno dai topi di campagna, destinati ad un futuro meno prestigioso ed altisonante, ma tra i quali non mancheranno dei sinceri continuatori del suo messaggio.
IX- L'EPILOGO
Il cammino umano del conservatore, fatto di "coraggio, misto però di rassegnazione e di rimpianto per le azioni mancate" (pag. 155), pur avviandosi verso la fine, è ancora ricco di eventi. Nel capitolo La confusione delle lingue, egli può aggiungere un rifiuto al suo curriculum, quello di diventare podestà.
Santobuono vorrebbe utilizzare l'autorità morale dell'uomo per puntellare un sistema ormai agonizzante, e questo non è che la conferma della malvagità e della falsità umana. Che Gaetano fosse un uomo di vaglia molti lo pensavano, salvo poi dimenticarsene nelle situazioni normali, quando le mediocri ambizioni reclamano spazio.
Il resto del capitolo sposta il suo fulcro narrativo sulle rapide vicende che portano all'arrivo degli Alleati, che in questo paese del Sud vengono accolti con un incredibile entusiasmo ("la gente uscì per le strade ad attendervi gli alleati, e pareva lo struscio della festa di maggio", pag. 164).
Abbiamo già notato che Casiglio avrebbe potuto sfrondare un po' questa parte del romanzo, se non si fosse fatto coinvolgere eccessivamente dal piacere di raccontare eventi relativi alla propria giovinezza; d'altra parte, va anche detto che il tutto avviene in maniera consapevole e questi quadri vogliono rendere la multiforme realtà nata dopo la fine del fascismo, e quindi la fine dell'immobilismo: "La petrosa vita del sud si fluidificava, acquistava consistenza magmatica; ed era il perfetto e genuino contrario di quel che si faceva da vent'anni: la piramide corporativa e gerarchica era crollata nel polverone e la forza sommergente dell'evento oscurava la vicenda individuale del nostro Gaetano" (pag. 169).
I vari partiti si riorganizzano e le pagine, particolarmente ricche di ironia, registrano i rinnovati entusiasmi, il pudore del momento, ma anche il persistere di certe abitudini negative, nella costante idolatria del potere. Si pensi, così, alle descrizioni dei convertiti politici, pronti ad arrampicarsi sugli specchi di una improbabile coerenza e attenti ad occupare i posti che contano.
Gli stessi elementi si ritrovano nelle descrizioni dell'attività del comitato di liberazione locale. Si consideri questo passo:
Avevano formato il comitato di liberazione, ma, a parte il fatto che non c'era per il momento nulla da liberare, s'erano trovati i rappresentanti di cinque partiti, compreso l'azionista Scaglietti, ma mancava, a fare il numero di sei, la democrazia del lavoro. L'espressione sonava strana ai più, era come l'araba fenice; chi invece la comprendeva, non voleva saperne. Ne derivava una sensazione d'incompletezza, che aduggiava ogni responsabile presa di posizione collettiva, come quando i tifosi vedono giocare la squadra favorita ridotta di numero (pag. 176-77).
Per fortuna arriva il sesto tra cotanto senno a colmare l'intollerabile vuoto, ma solo momentaneamente, visto che ben presto "l'esarchia tornò a ridursi a pentarchia" (pag. 178).
Quanto alle epurazioni, per i misfatti del ventennio paga solo il comandante dei vigili urbani, dimostrando che, in fondo, aveva ragione Specchia, quando dichiarava che non è possibile mettere sulla bilancia le ambiguità, i meriti e i demeriti di tutti gli italiani, arrivando ad una vera giustizia, ragion per cui, concludeva, era meglio lasciar perdere e voltare pagina.
Accanto alla scena ristretta del paese, però, c'è quella di rilevanza nazionale, dove si giocano i destini dell'Italia. Gaetano, che ha ricevuto da Badoglio l'incarico di coordinatore degli studi superiori del regno (qui si nota particolarmente il ricordo delle vicende del modello, Angelo Fraccacreta) si tuffa nel suo lavoro, allo scopo di evitare la dispersione delle energie intellettuali.
Per lui il principio del meglio poco che niente è indiscutibile, ma piovono le critiche e Gaetano subisce il proverbiale promoveatur ut amoveatur, finendo in una grossa università statale.
Si avverte, come si dirà in modo esplicito nelle ultimissime pagine del romanzo, che questo professore è troppo ingombrante, dà fastidio ai disonesti, appare come un metro di giudizio del quale si farebbe volentieri a meno, una sorta di surrogato della coscienza.
Per i più onesti, però, resta un modello positivo, anche quando ci si allontana dalle sue posizioni, come nel caso di Alfeo De Seriis, che va a fargli visita annunciandogli la sua volontà di un impegno più attivo per cambiare la realtà. Una decisione non facile per il giovane topo di campagna, che avrà di che meditare dopo che un accordo segreto tra due suoi compagni di partito lo taglierà fuori dal consiglio comunale.
Acutamente disilluso, Gaetano non giunge mai alla preconcetta estraneità, misurando il suo modo di partecipare agli eventi, rifiutando la nomina a marchese ma votando per la monarchia, pur tra mille pensieri contrastanti, e infine candidandosi a consigliere per poi dimettersi subito dopo, constatata la differenza tra coloro che aveva dichiarato di appoggiarlo e i voti realmente ottenuti.
Gaetano si presenta in una lista di secondaria importanza, sancendo sia la sua distanza dai rossi che dai bianchi, ai quali pure avrebbe dovuto dare il suo appoggio, come gli diceva l'amico don Alfonso Faralla.
Il filo del romanzo ci ha condotti a questo punto all'ultimo capitolo, La grande paura, e al rifiuto democristiano di candidarlo al senato. Mentre la sua figura campeggia sullo sfondo, la narrazione segue l'inutile azione a suo sostegno di don Alfonsino Faralla e di altri personaggi.
Gaetano è un isolato, ma è anche un anello della catena che lega gli uomini che costituiscono il sale della terra, "solida, perché è fuori del tempo e delle ideologie, fuori di ogni contraccambio, gratuita" (pag. 225); eppure questo non basta a spianare gli ostacoli all'amico sacerdote, ignaro delle trame di Cassarini, che trovano un corrispettivo nella sfera più alta del vescovo, dalle ambigue parole, e soprattutto dei mandarini, di quell'"On. Prof. Mario Sanleo" (pag. 236), che in una sua lettera "dice e non dice" (ivi), come osserva don Alfonsino, e si guarda bene dal ricordare di essere stato allievo di Specchia.
I personaggi in questione hanno altri progetti e l'intruso viene liquidato con un pretesto, quello di essere stato consigliere provinciale, agli inizi del secolo, con l'appoggio della massoneria. Una scusa come un altra, per motivare una decisione già presa.
La candidatura viene così offerta a Cassarini, "l'uomo rappresentativo" (pag. 239), come nota il notaio Barletta, spregiudicato ed ambiguo, ma, appunto, rappresentativo del nuovo; i mandarini lo controlleranno senza problemi e anche il vescovo potrà chiedergli tutti i favori che vorrà. Una rete di complicità sancisce la società del compromesso, in cui Gaetano è, ancora una volta, fuori posto.
La sua scomparsa è in stile con il personaggio, avviene mentre scrive, improvvisamente, e a questo passo senza ritorno egli non arriva con l'animo del vinto, ma di chi "sentiva che la sua vita era piena" (pag. 240).
La sua morte, in tempo di elezioni, è l'occasione per una macabra sceneggiata, in cui il "sindaco rosso" (pag. 241), il vescovo, monsignor Lampugnani, Cassarini ed altri recitano la loro parte, ma in cui il protagonista indiscusso è Mario Sanleo, che tiene un comizio con il quale si anticipa l'inizio della campagna elettorale.
Le bellissime pagine contengono anche una nota grottesca, quando "i paesani usciti a comperare il pesce fresco videro, accanto ai manifesti del gran lutto del giorno innanzi, quelli freschi di colla,...che annunziavano il grande comizio dell'onorevole professor Mario Sanleo" (pag. 243). L'ultimo pensiero non poteva che essere di De Seriis, al quale non sfugge la drammaticità di questa farsa:
Al professore faranno poi un monumento, o almeno un medaglione; ma intanto si sentono più leggeri, più freschi, ora che è andato via, al momento giusto: perché i prestatori prestino, gl'intraprenditori intraprendano, i premii premino tutti e tutto, i vincenti vincano vittorie, i consumatori consumino, i populisti populizzino, gl'indagatori indaghino rigorosamente, pianifichino i pianificatori, analizzino gli analisti, e i critichi critichino le crisi, bamboleggino le bambole e i telecapi telecomandino; affinché i solutori risolvano, gli scopritori scoprano e le esigenze esigano; affinché tutte le tautologie tautologizzino in pace (pag. 244).
Con questo fuoco d'artificio verbale Il conservatore giunge al suo epilogo, denunciando, al di sotto delle forme nuove, una continuità di fondo, nella sua accezione negativa, che rappresentava una delle possibilità esistenti, e non certo la migliore.
Il mutamento auspicato è rimasto un'illusione e non si è trasformato in progresso, come si vedrà anche nel successivo romanzo, Acqua e sale; anzi, alla persistenza dei difetti ha fatto riscontro la scomparsa di certi pregi, come, ad esempio, il senso del dovere e della responsabilità.
Un dramma recente che lascia pensare e che si chiude in modo amaro, ma senza un assoluto pessimismo e senza un oblio; l'arte è intervenuta a salvare un mondo di valori e la testimonianza di coloro che formano il sale della terra, pur nei loro limiti e nei loro difetti, è ancora intorno a noi, solo che, come spesso si ripete, il male fa sempre più rumore del bene.
E poi, non è detto che la storia, anche al suo livello più alto, debba sempre registrare fallimenti e possibilità sciupate!.
6 Del capitolo d'apertura esiste un acuto contributo di GENEROSO DE ROGATIS, Lettura critica del primo capitolo de "Il conservatore", in "Annuario del Liceo Classico N. Fiani di Torremaggiore", Dotoli, San Severo, 1976, pag. 91-97.
7 F. DE LUCA, Il conservatore, in "Letture", Milano, n.5, 1973, pag. 376.