LA RASSEGNA DELLA LETTERATURA ITALIANA, 2017, I, pp. 284-285

 

FRANCESCO GIULIANI, L’approdo della finzione. Lettura delle novelle del «Don Candeloro e C.i » di Verga, Foggia, Edizioni del Rosone, 2015, pp. 312.

 

      

       È una rilettura accurata e approfondita dell’ultimo ciclo di novelle scritte da Verga, di cui G. non nasconde i limiti e i difetti («non si tratta di un libro sereno – leggiamo nelle prime righe dell’Introduzione, a p. 7 – né fiaccamente rassegnato al negativo, ma ricco di note aspre e stonate, di storture e invettive, di ritrattazioni e controcanti, che coinvolgono in un’unica ed insidiosa spirale retrospettiva l’intera produzione verghiana»). G. parte dallo studio del titolo della raccolta e dai giudizi dei critici, italiani e stranieri (pp. 26-sgg.), su queste novelle. I personaggi, maggiori e minori, che popolano queste novelle, sono studiati sia singolarmente, sia «per categorie» (interessante ad es. quanto si dice degli osti, alle pp. 60-62). Spiccano fra tutte, le pagine che affrontano il problema religioso e della vocazione (pp. 240-245), e quelle che studiano le metafore tratte dal mondo animale (pp. 215-218). Il critico sa, ed è questo che ci interessa, riconoscere le pagine più vive e artisticamente riuscite del ciclo narrativo (ad es. p. 75).

      Ne Il tramonto di Venere G. riconosce una certa peculiarità, perché «il linguaggio melodrammatico, come quello mitologico, viene utilizzato in funzione dissacratoria, pur non essendo una diretta proiezione dei personaggi» (p. 133). In Epopea spicciola (di cui segue la complessa vicenda compositiva) il critico evidenzia le parti più riuscite, e specialmente il grande finale: «è un’immagine che non sposta il giudizio politicamente corretto sul mercenario, che ha militato dalla parte sbagliata senza essere neppure napoletano, ma che arricchisce la pagina con una nota di commossa poesia» (p. 263).

      Nella raccolta di novelle G. isola e riconosce alcuni temi ricorrenti; e fra questi, accanto al tema della maschera («non si tratta più», leggiamo a p. 24, «di un semplice pezzo di stoffa che nasconde il viso, né di una momentanea finzione, visto che la maschera smarrisce la sua specifica identità, universalizzandosi. Inoltre, essa non è più appannaggio delle classi nobiliari ed alto-borghesi, che dominano i romanzi giovanili, ma di tutti gli strati della piramide sociale, dal popolano in su») il tema drammatico del «puparo». Il quale puparo, dopo aver comandato a suo piacimento uomini e pupi, viene accantonato come un ferro vecchio e inservibile. E questo ultimo tema è evidenziato soprattutto nel paragrafo intitolato Il filo della ballerina (pp. 145-sgg.), in cui G. propone di leggere Il tramonto di Venere in una chiave per cui «la storia della protagonista si snoda parallelamente a quella di don Candeloro, dall’illusione della divinità fino all’inarrestabile declino, dal dominio della scena, destando l’ammirazione di tanta gente, al fallimento» (p. 145); è sempre insomma il dramma «dell’uomo che pensa di poter dominare la realtà e invece diventa un oggetto nelle sue mani» (ibid.). 

      L’analisi di G. non si limita all’ultimo ciclo di novelle, ma finisce per investire tutto il mondo fantastico di Verga, e tutta la sua ideologia; direi tutta la «Welthanschaunng» dello scrittore siciliano. Molto importante, a questo proposito, risulta tutto il capitolo VII, Il retroscena della religione (pp. 149-164), dove G. distingue Verga «scrittore» dal Verga «uomo», e sostiene che mentre nello scrittore opera una totale «dissacrazione» del mondo religioso, della Chiesa e delle figure di religiosi, nell’«uomo» Verga è possibile rintracciare, seguendo un’indicazione di Giuseppe Savoca, «una interiorità di fede raramente esplicita, ma non per questo meno radicata e sentita» (p. 163).

     Antonio Carrannante

 

 

LA FINZIONE DI VERGA

  

 

        La finzione è una delle tematiche per eccellenza in letteratura: basti pensare alla celebre raccolta borgesiana di racconti, Finzioni, all’interno della quale campeggia l’esercizio letterario come scorciatoia per eludere le vie asfittiche dell’esistenza. Il giardino dei sentieri che si biforcano, scritto centrale della raccolta, si innesta proprio in questa possibilità centuplicata di evasione, di tormento e anche di speranza.

        La finzione in Verga, invece, lungi dall’imitare l’utopia del concettualismo, il non luogo entro cui si potrebbe vivere, tende a riprodurre i quadri cangianti del reale, denunciando i mostri dell’ipocrisia sociale e del conflitto interiore. Francesco Giuliani, nel suo generoso L’approdo della finzione. Lettura delle novelle del «Don Candeloro e C.i» di Verga (Edizioni del Rosone, Foggia 2015, 20 euro), individua precipuamente tali componenti tematiche e traccia una linea critica limpida, di ampio respiro, per certi versi audace.

         «Siamo sempre rimasti molto colpiti dalle novelle del Don Candeloro e C.i, dalle pagine di questo libro così particolare, che inizia a nascere all’indomani del Mastro-don Gesualdo, portando con sé, nettissimo e inquietante, il senso dell’approdo definitivo, della fine travagliata di un’avventura letteraria che precede di molti anni l’epilogo esistenziale. Lo scrittore poteva anche illudersi di completare il celebre ciclo dei vinti, poteva immaginare di dare vita, persino a stretto giro di tempo, alle vicende della duchessa di Leyra, illuminando il suo aristocratico e infido mondo nobiliare; ma, di fatto, dopo la silloge apparsa nel dicembre 1893, con i millesimi dell’anno successivo, resterà ben poco da aggiungere e scrivere. Il silenzio era alle porte».

         Le novelle in questione sono, dunque, tutt’altro che serene, ma non si abbandonano nemmeno all’ostentato pessimismo dell’epoca, lasciando ancora un fulgore di approdo dietro la nebbia. Si percepisce un’aria di malinconia soffusa e di denuncia graffiante, scavate dall’affilata penna di un autore che Giuliani riconsegna ad una chiara necessità. Verga deve essere letto perché, al di là dei meriti o demeriti estetici, sa parlare con nitore di «quello strano animale che è l’uomo», mettendone in luce debolezze e vittorie, angosce e momenti di lucidità.

         «Il libro edito dalla Treves è indubbiamente vario, come si può facilmente verificare, dall’artista, visto nelle sue varie sfaccettature, ai religiosi, chiusi in un piccolo mondo che conferma e compendia il macrocosmo che li circonda, dalle vittime plebee delle violenze della guerra ai nobili aggrappati alle convenzioni del loro ambiente».

       Benché la critica non si sia certo espressa in maniera lusinghiera nei confronti della silloge trevesiana, Giuliani tenta di riabilitare quanto di bello e intenso è possibile percepire da queste pagine, ricche di «storture e invettive, ritrattazioni e controcanti», che ancora riescono ad illuminare il cammino e imprimersi come stilettate nel cuore arido della finzione.

       Ancora una volta Giuliani ci dimostra la sua straordinaria capacità di introspezione nel testo, nel saper individuare elementi e dinamiche inusitate, mai o poco esplorate prima. Da qui si evince il merito di questo autore, in tutti i suoi puntuali, coraggiosi, appassionati percorsi letterari.

         Enrico Fracccareta

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