UN LIBRO DI GIOVANNI RUSSO

SAN SEVERO, LA CITTA’ DELLE BANDIERE

         

         “BARONI E CONTADINI”

Esattamente cinquant’anni fa, nel 1955, veniva dato alle stampe un volume destinato ad avere un buon successo, dal titolo indovinato, “Baroni e contadini”. L’autore è un giornalista, Giovanni Russo, che è ancor oggi una delle firme di spicco del “Corriere della Sera”, dove scrive con buona frequenza, in particolare di tematiche culturali.

Allora era agli inizi della sua carriera. Quello di cui ci accingiamo a parlare, in particolare, edito dalla Laterza di Bari, è proprio il suo libro d’esordio.

In “Baroni e contadini” Russo raccoglie una serie di scritti in buona parte apparsi sulle pagine de “Il Mondo”, un’importante testata diretta da Mario Pannunzio, che ha un orientamento liberale, che si ricollega al Partito d’Azione e alle sue matrici culturali laiche e repubblicane.

Russo si riconosce in questa visione della politica e della realtà, servendosene per raccontare la storia dell’Italia negli anni a cavallo del 1950; più in particolare, gli articoli vanno dal 1949 in poi. Si tratta di anni difficili e cruciali per intendere gli sviluppi successivi.

L’opzione occidentale italiana comincia pian piano a dare i suoi frutti e i governi centristi del periodo puntano sulla Cassa del Mezzogiorno e sulla legge stralcio per venire incontro alle forti richieste di giustizia sociale, che si riflettono, ovviamente, anche in ambito politico.

     Russo, nella Prefazione, ricorda che nella campagne i contadini premevano per ottenere la terra, mentre c’era un movimento favorevole alle riforme, che si scontrava con timori ed egoistiche resistenze.

La parte introduttiva si chiude con queste parole, che il giornalista riferisce a se stesso: “Egli spera che queste pagine, nate nell’intento di capire i protagonisti della vita dei paesi del Sud, borghesi e contadini, i loro comportamenti e le loro reazioni, mentre qualcosa andava finalmente mutando, contribuiscano a dare una visione libera da convenzioni e da schemi della società meridionale”. L’intento di Russo è chiarito in modo efficace, rivelando anche l’intenzione di andare oltre gli schematismi ideologici.

Ma perché parliamo di questo libro? Semplice: tra i capitoli ce n’è anche uno dedicato completamente a San Severo. Lo scritto si intitola “Le bandiere di San Severo”, ed è abbastanza ampio ed articolato, occupando dieci fitte pagine di “Baroni e contadini”.

Russo giunge nel cuore del Tavoliere nel maggio 1951, trovandosi di fronte ad una città ricca di problemi e di contraddizioni. Sicuramente dovette influire nella sua scelta di visitare San Severo la fama che si era acquistata con la rivolta dell’anno prima, il 23 marzo 1950, quando tutti gli organi d’informazione nazionale avevano parlato delle folle rivolta contadina.

Ma il titolo del capitolo non deve trarre in inganno: le bandiere non sono quelle politiche, bensì quelle che segnalano la vendita di vino: “Da ogni angolo di muro sporge una picca su cui sventola una bandierina rossa… Sono le bandiere di San Severo, le sue vere insegne. Indicano le cantine dove il paese custodisce la sua ricchezza, quel vino che vengono a caricare sulle grosse autobotti le ditte piemontesi che lo trasformeranno in vino di lusso e di esportazione”.

San Severo possiede un centro storico ricco di luci ed elegante, i cinema sono affollati e moderni, ma molte case contadine sono prive di acqua e di fogne. E’ la città dove migliaia di braccianti attendono un ingaggio e tanti piccoli proprietari riescono a stento a sopravvivere, malgrado le lunghe ore trascorse in campagna.

La ricchezza è accentrata nelle mani di pochi proprietari, che Russo coglie in un momento particolarmente delicato, mentre si attendono gli espropri legati alla legge stralcio, che aumenterà il numero dei piccoli proprietari, colpendo i latifondisti cittadini.

 

L’ODIO PER I “CATACUBBI”

Russo rivela chiaramente la sua opzione riformistica, prendendo le distanze, da una parte, dall’ideologia comunista, mentre dall’altra auspica delle riforme sempre più incisive, che cambino il volto della città. Da questa impostazione deriva il fermo atto di accusa contro i “catacubbi”, ossia la classe dei medi e grossi agrari, che abitano nella zona che va da piazza Municipio alla villa comunale.

Il giornalista parla diffusamente di loro, evidenziandone l’egoismo di classe e la grettezza. E’ gente avara, sulla quale si raccontano storie incredibili, che vengono diligentemente riportate da Russo, con l’aiuto di alcuni sanseveresi, che riferiscono del ricco commerciante di grano che lavora ancora in uno sgabuzzino, alla luce di una fioca lampadina, o di quelli che vanno alle terme, per ordine del medico, e si portano dietro le provviste alimentari.

Essi appaiono isolati dal resta della città, odiati anche da morti, come la vecchia il cui funerale passa tra gli improperi di tutti i sanseveresi.

I “catacubbi” si lamentano per le tasse, ma poi evadono le norme sull’assunzione di manodopera, denunciando cifre gonfiate ad arte, il che acuisce la forte disoccupazione. Se loro collaborassero, nota Russo, la città sarebbe di gran lunga più tranquilla e ordinata.

Quanto alla rivolta del 23 marzo 1950, il giornalista è molto più credibile di Tommaso Fiore, che ne “Il cafone all’inferno” parla di uno “scelbino che con un coltello da beccaio si lanciò addosso a tre lavoratori e li colpì a sangue; che fu il fattaccio che dette origine a un episodio della Resistenza meridionale e fece traboccare il vaso”. Sembra uno scherzo, ma Fiore scrive proprio così.

Russo, invece, che arriva ad un anno dall’accaduto, quando i responsabili della rivolta sono ancora in carcere, scrive che “I veri motivi che provocarono la rivolta, ancora non si conoscono con precisione”. Il che, sia ben chiaro, è la verità, visto che molti aspetti della questione sono rimasti nascosti sotto una densa coltre di omertà politica ed ideologica.

Nella sua tappa sanseverese il giornalista visita tutte le sedi di partito, incontrando, via via, vari personaggi, alcuni facilmente riconoscibili, benché innominati. E’ il caso, ad esempio, dell’avvocato “R.”, ossia l’ex onorevole Raffaele Recca, che Russo incontra a sera, nel palazzo dove riceve anche i suoi clienti. Non mancano degli incontri ravvicinati anche con il segretario del PCI e quello del Partito monarchico. Quanto al MSI, Russo, da azionista antifascista, è duro, ricordando le matrici neofasciste del partito, che l’anno dopo, nel 1952, avrà una grossa affermazione nelle elezioni comunali, vinte comunque dalla Sinistra.

Il ritratto della città, nel complesso, è realistico, anche se molti sanseveresi lo confesseranno a denti stretti. E’ un mondo tradizionalmente contadino, che è in attesa di grandi novità.

La soluzione non sarà rappresentata dal soddisfacimento dell’antica aspirazione al possesso di un pezzo di terra, in verità, ma dalla valvola di sfogo dell’emigrazione. Nella seconda metà degli anni Cinquanta inizierà la grande fuga al Nord e all’estero. I braccianti diventeranno operai e si chiuderà una fase storica. Ma questa è una fase successiva, rispetto al ritratto di San Severo del 1951. 

“Baroni e contadini” è un libro che avrà successo e che avrà anche altre ristampe, sempre presso la Laterza di Bari. In esso ci sono anche numerose altre pagine interessanti, come “Gli ebrei di San Nicandro”, dove si parla dell’esistenza di una comunità ebraica nella cittadina garganica, con parole di ammirazione per la difficile e singolare scelta di Donato Manduzio e dei suoi seguaci.

Anche questo ritratto di vita pugliese è del maggio 1951 e si lega strettamente al capitolo sanseverese, riuscita istantanea del nostro Meridione contadino.

Si tratta di storie di cinquant’anni fa, ma se si pensa a quello che è avvenuto nel frattempo, gli anni sono molti, molti di più.

   

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