GIORNALISTI ITALIANI TRA IL DUCE E IL NEGUS

 

         La conquista italiana dell’Etiopia rappresenta un momento particolare nell’ambito di una politica coloniale che aveva dato spesso dispiaceri alla nazione. Non a caso il picco del consenso il Fascismo lo raggiunse proprio in seguito all’occupazione di Addis Abeba, vendicando la terribile sconfitta di Adua.

        Su questo periodo focalizza le sue attenzioni Rosario Mascia, nel volume “I giornalisti alla conquista dell’Impero”, che reca come sottotitolo “Corrispondenze di guerra dall’Africa Orientale 1935-1936” (Terziaria, Milano, 2003, pag. 318, 18 euro).

        Mascia, classe 1950, è un giornalista pubblicista freelance, nato a Brindisi, collaboratore di alcune testate nazionali, che si è laureato in Scienze Politiche a Firenze con una tesi in Storia del Giornalismo, dedicata proprio all’argomento oggetto del volume in questione. Un libro, insomma, scritto da un giornalista, che pone in primo piano il lavoro dei colleghi che negli anni Trenta si recarono in Africa per seguire lo scontro tra le truppe di Mussolini e quelle del Negus.

        In quasi settant’anni molte cose sono cambiate, ma ci sono anche numerose costanti, che vengono sottolineate nell’incisiva prefazione di Lucio Lami, che per tanti anni è stato corrispondente di guerra del “Giornale”.

       Lami ricorda che allora i giornalisti dovevano fare i conti con una rigida censura, ma ancor oggi i poteri forti non rinunciano alla volontà di manipolare l’informazione. Cambiano i mezzi, ma non il fine.

        Leggendo il lavoro di Mascia si capisce quanto fosse stretto il cappio intorno alla libera informazione e quanto fosse arduo procurarsi le notizie, tra malattie e difficoltà ambientali, tra rivalità e necessità di reperire un telegrafo.

         Il quadro delineato dall’autore è ampio ed articolato, rivelando una conoscenza di prima mano di molti documenti, scovati in archivi come quello Centrale dello Stato e quello del Corriere della Sera.

        Mascia preferisce far parlare i fatti, senza intromettersi più del necessario, senza inutili o superflui commenti morali o politici, ponendosi al di sopra di tutte le dispute e di tutti gli interessi ideologici che hanno a lungo inquinato l’analisi storica del Ventennio.

        L’autore si addentra spesso nella narrazione di episodi e circostanze ben determinati, facendoci familiarizzare con gli inviati delle principali testate giornalistiche dell’epoca, che furono alcune decine. Il Corsera fu quello che profuse il maggiore sforzo e tra le sue firme si distinse quella di Achille Benedetti, che venne considerato il migliore tra gli inviati italiani. Numerose furono anche le firme del giornalismo straniero, che rivelarono una spiccata propensione per gli Etiopi, per i quali parteggiarono fino al punto di falsificare le notizie.

       In alcuni capitoli il libro è troppo dettagliato e avremmo gradito una sintesi finale, traendo le canoniche conclusioni, ma Lami ha ragione quando ricorda che si tratta del classico volume dal quali molti storici attingeranno in futuro, magari, spregiudicatamente, senza citare la fonte.

       Nell’era di internet e dei cellulari, fanno quasi tenerezza questi giornalisti che scrivono l’articolo a penna, per poi passarlo a macchina ed affidarlo all’ufficio censura, che non di rado lasciava il segno. La tecnologia si fermava qui e da Roma, come ricorda Mascia, tutto era stato predisposto perché sui giornali non fossero pubblicate notizie “sgradevoli” o pericolose.

        L’autore segue le varie fasi della guerra fino all’epilogo, ossia all’ingresso nella capitale etiopica del maresciallo Badoglio, sul suo cavallo scuro, accanto ad altre autorità del Fascismo; ma non manca un’appendice, “Ciano illustra la vittoria”, nella quale si ricorda il conferimento di numerose decorazioni ai giornalisti. Benedetti, ad esempio, ottenne una Medaglia d’argento, mentre altri ottennero un certificato di partecipazione alla marcia di avvicinamento ad Addis Abeba. Tutti premiati, insomma, senza bisogno di conferire onorificenze alla memoria.

       Opportunisti e furbi, censurati e scaltri, gaudenti e compiaciuti di sé, i giornalisti, proprio come i loro colleghi odierni, rivelano le loro caratteristiche umane, positive e negative, in una guerra che per fortuna non richiese grossi tributi di sangue, come invece è avvenute in altri conflitti più recenti. In tutto, i soldati italiani morti in Etiopia furono 3.981.

        Il libro di Mascia è scritto in una lingua scorrevole e duttile, senza inutili appesantimenti accademici, impreziosito anche da alcune foto d’epoca. Al lettore il compito di ricavarne l’intrinseca lezione, di fronte ad episodi comici, come la conquista “preterintenzionale” di Adua, la sera del 5 ottobre 1935, quando un gruppo di 39 uomini della sussistenza, più un cavallo e 38 muli, entrarono nella città ritenendola già liberata. Il grosso delle truppe italiane invece entrò il mattino dopo, per evitare sgradevoli sorprese.

 

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