L'ULTIMO ATTO DEI BORBONI
GIGI DI FIORE, "GLI ULTIMI GIORNI DI GAETA"
Non c’è dubbio che l’accoglienza riservata a questo centecinquantesimo
anniversario dell’Unità d’Italia stia diventando sempre più fredda, con il
passare dei mesi, soprattutto perché qualcuno vorrebbe continuare a raccontare
le solite storielle dell’eroismo risorgimentale di capi e capetti, a partire da
Vittorio Emanuele II, facendo finta che niente sia cambiato nel frattempo.
Evitare di fare i conti con la storia è un errore e a nulla serve fingere di
sdegnarsi o, peggio, prendersela con quanti hanno dato alle stampe libri
importanti in quest’ambito.
Qualche storico con la puzza sotto il naso (e lautamente pagato con i
soldi nostri…) sta polemizzando contro i libri di storia scritti dai
giornalisti, bollandoli come falsi e tendenziosi, propagatori di idee
reazionarie e addirittura filoborboniche.
Di solito si parla così quando non si hanno argomenti validi. E’ evidente
che i libri di storia andrebbero scritti dagli storici di professione, quelli
che dovrebbero fare ricerca seria, specie se sono retribuiti dai contribuenti
italiani. Non sempre però questo succede e allora se i giornalisti fiutano
l’esistenza di fatti, documenti, eventi, e ne parlano, questo va a merito, non a
demerito, di questa gente. Del resto, la distinzione tra storici e giornalisti,
come quella tra letterati e giornalisti, non è mai netta e limpida, dunque non è
il caso di riprendere una vecchia ed oziosa questione.
Piuttosto, è il caso di vedere se siamo di fronte a libri documentati e seri o a testi improvvisati, e quello di cui ci apprestiamo a parlare ci sembra rientrare pienamente nella prima categoria. Ci riferiamo al volume di Gigi Di Fiore, “Gli ultimi giorni di Gaeta”, da poco edito dalla Rizzoli di Milano (pp. 354, euro 20). L’autore, già redattore al “Giornale” di Milano, è inviato al “Mattino” di Napoli. Al suo attivo ha vari lavori storici, apparsi negli ultimi anni, tra cui “I vinti del Risorgimento”, del 2004, e “Controstoria dell’Unità d’Italia”, del 2007, che ci sentiamo caldamente di consigliare.
In comune, questi lavori hanno un’ottica puntata sui perdenti, sugli sconfitti,
su quelli, cioè, che non hanno avuto diritto di parola, soffocati dalla retorica
risorgimentale e dagli interessi dei governanti di turno. Nell’opera appena in
libreria si tratta, in particolare, dei meridionali devoti alla dinastia
borbonica, a quanti, cioè, hanno inteso rispettare il giuramento fatto al loro
re, che era, poi, Francesco II.
La verità è che quest’ottica riesce particolarmente gravida di
conseguenze per gli italiani, e per i meridionali in particolare. Non avevamo
mai pensato che il risorgimento era stato anche una guerra civile, che i soldati
napoletani opposti a quelli piemontesi erano in fondo figli della stessa patria.
Gli eroi, ci avevano detto, erano tutti da una stessa parte, ma la storia è più
complessa e problematica e oggi sappiamo che i briganti non erano quei
masnadieri che ci avevano presentato, ma semplicemente dei ribelli devoti alla
vecchia dinastia o scontenti del nuovo assetto politico, che privilegiava i
ricchi e sparava sui poveri quando chiedevano le terre promesse, come a Bronte e
in altri posti.
Forse per questo questi libri sono scomodi, ma la verità è destinata
prima o poi a venire alla luce, e questi anni sembrano quelli decisivi per
sgombrare il campo da imposture e reticenze.
In ogni caso, Gigi Di Fiore ha scritto un volume davvero molto informato,
fornito delle rituali note e dell’altrettanto canonica bibliografia finale. Al
centro del suo lavoro c’è l’atto finale della dinastia borbonica: l’assedio di
Gaeta.
I piemontesi, che pure non hanno mai ufficialmente dichiarato guerra al
Regno di Napoli, circondano la fortezza di Gaeta, all’interno della quale
Francesco II e la regina Maria Sofia, insieme con oltre 10 mila soldati rimasti
fedeli, resistono strenuamente. Le sconfitte e i gravi errori nella conduzione
della guerra hanno costretto l’ultimo sovrano borbonico a rifugiarsi al riparo
delle fortificazioni di questo comune, che oggi è in provincia di Latina, ma che
fino al 1927 apparteneva a quella di Caserta, rientrando, dunque, nel regno
meridionale.
Siamo a novembre del 1860 e l’ultimo atto è davvero cruento. Fino al mese
di febbraio del 1861 piovono colpi di cannone su Gaeta. E’ un bagno di sangue
che ha provocato danni immani alla città, rimasti, tra l’altro, a distanza di
150 anni, ancora senza risarcimento, malgrado i propositi e le promesse.
Di Fiore ricorda che Francesco II non aveva più alcuna possibilità di
vincere la guerra e restava aggrappato alla speranza, sempre più debole, di un
intervento straniero a sostegno della legalità internazionale, ossia del diritto
di esistere del Regno delle Due Sicilie, ufficialmente riconosciuto da tutti gli
stati europei. Ma nessuno volle impegnarsi per Francesco II e così, quando le
navi francesi abbandonarono la zona, i piemontesi, guidati da Cialdini,
aumentarono la potenza di tiro, fino alla capitolazione.
Francesco II riparò con la moglie e i suoi fedelissimi a Roma, presso il
papa, dove restò fino al 1870, per poi morire ad Arco, in provincia di Trento,
nel 1894. Maria Sofia scomparve più tardi, nel 1925, lamentandosi sempre per il
trattamento subito dai Savoia. Un ventennio dopo, però, anche i sovrani
piemontesi avrebbero conosciuto il dolore dell’esilio.
La storia di Gaeta è molto significativa, per tanti aspetti. Ci furono
non pochi tradimenti dall’esercito borbonico a quello piemontese, ma ci furono
anche dei giovanissimi napoletani che scelsero di difendere fino all’ultimo il
giuramento fatto al re borbonico. Sono i vinti di ogni tempo, che meritano
almeno l’onore delle armi, visto che pochissimi ci hanno parlato di loro. E
così, mentre l’ex maggiore borbonico Giacomo Guarinelli passa nell’esercito
piemontese e svela i segreti delle fortificazioni di Gaeta, da lui
ristrutturate, per giunta con materiale scadente (una vecchia abitudine, a
quanto pare…), un piccolo plotone di adolescenti ottiene di combattere a difesa
della cittadina assediata, rimettendoci la vita, come il diciassettenne Carlo
Giordano, figlio di un generale napoletano morto qualche mese prima.
Di episodi simili ce ne sono tanti, descritti da Gigi Di Fiore con molta
precisione e in modo vivido, da consumato narratore. Per i borbonici l’assedio
diventò ben presto un calvario. Il tifo portò via molti soldati, mentre gli
ospedali furono costretti ad operare in condizioni di assoluta emergenza,
operando ed amputando a freddo.
La resa, nel febbraio del 1861, tolse l’ultimo ostacolo verso la
proclamazione del Regno d’Italia, che infatti avviene il mese dopo. Cavour, che
non scese mai a Sud, tirò un respiro di sollievo, mentre il re Vittorio Emanuele
II conservò la sua antica numerazione, volendo far comprendere che si era
trattato di una semplice annessione di territori al regno di Piemonte. Tra
l’altro, Di Fiore ricorda che la prima legislatura del Regno d’Italia “fu in
realtà l’VIII legislatura, come da numerazione dello Stato piemontese”. Un
particolare non da poco, com’è facile comprendere, e che mostrava in che
considerazione il Meridione veniva tenuto dai vincitori, tra cui c’è il primo
luogotenente del re a Napoli, il romagnolo Luigi Carlo Farini, passato alla
storia anche per un suo “delicato” giudizio: “Altro che Italia! Questa è Africa,
i beduini a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile”. A sua
parzialissima discolpa, va detto che non era il solo a pensarla in questo modo.
Vittorio Emanuele II, poi, nel discorso alla Corona, ricordò che la
nazione nasceva con le armi e che “L’armata navale ha dimostrato nelle acque di
Ancona e di Gaeta che rivivono i marinari di Pisa, di Genova e Venezia”. Per
lui, come si vede, le antiche repubbliche marinare si riducevano a tre,
eliminando dall’elenco, “casualmente”, proprio Amalfi.
L’Italia iniziava di lì un cammino tortuoso e minato, in armonia con
queste mediocri premesse, con questi fatti a lungo censurati dagli storici
conformisti e sostituiti con un cumulo di retorica post-unitaria e liberale, poi
fascista, poi repubblicana. Ma raccontare la verità è l’unico modo per evitare
di buttare con l’acqua sporca anche il bambino. Prima lo capiscono, certi
signori, meglio è.