UNITA' D'ITALIA
LA CONQUISTA PIEMONTESE ATTRAVERSO I FRANCOBOLLI DEL SUD
I francobolli, come si sa, sono delle importanti testimonianze del nostro
passato, tanto più se si tratta delle emissioni a cavallo del 1861, ossia
dell’Unità d’Italia. Anche la filatelia, lo diciamo preliminarmente, conferma
che per i Piemontesi il Meridione, come le altre parti della penisola, se non
più delle altre parti, era in sostanza un territorio da annettere, da
conquistare, uniformando gli usi locali ai propri. Di conseguenza, il modello da
imporre fu quello della quarta emissione del Regno di Sardegna, stampata dal
1855 al 1863, che riportava l’effige di Vittorio Emanuele II e utilizzava i
centesimi e la lira. Nel Meridione, comunque, l’adeguamento al sistema
piemontese fu più tormentato, come vedremo.
Da questa scelta, in ogni caso, derivano alcune conseguenze, che rendono
arduo stabilire quando cessa, filatelicamente parlando, il periodo degli Antichi
Stati ed inizia quello dell’Italia unita. Questa incertezza si trova riflessa
sui vari cataloghi ufficiali, dal Sassone all’Unificato, fino al Vaccari,
quelli, per intenderci, che riportano l’elenco e le caratteristiche dei vari
francobolli, aggiungendovi il prezzo di mercato. Per i collezionisti sono dei
testi di ordinaria consultazione, delle bussole preziose.
Ma procediamo con ordine. Nel 1840 in Inghilterra nasce il primo
francobollo, il famoso “penny black”. Già negli anni Quaranta, per la precisione
nel 1841, l’architetto Amy Autran, napoletano di origine svizzera, propone
all’amministrazione postale del regno borbonico di adottare il francobollo per
l’inoltro della corrispondenza, ma il progetto si realizza solo nel 1858. Da un
possibile primato, che avrebbe dato lustro al regno borbonico, si arrivò ultimi,
visto che gli altri stati preunitari avevano già emesso delle loro serie. I
primi francobolli furono quelli del Lombardo-Veneto, nel 1850, allora sotto gli
Austriaci, seguiti da quelli del Regno di Sardegna, nel 1851.
I francobolli del Regno di Napoli sono 7 e riproducono lo stemma delle
Due Sicilie con un’uniformità di colore, sembra dettata dalla necessità di
evitare accostamenti patriottici sulla busta, che non li rende, in verità, molto
attraenti, specie quando il tempo li fa apparire ancora più spenti e indistinti.
La moneta è il grano e si va dal valore da mezzo grano fino a quello da 50
grana. In Sicilia, inoltre, poiché l’amministrazione postale era separata, si
dovette attendere il primo gennaio del 1859, quando apparve quella che, al
contrario, viene unanimemente considerata come la serie più bella degli Antichi
Stati italiani, con l’effige di Ferdinando II di Borbone, in diversi colori,
dall’arancio all’azzurro, dal verde al grigio.
Da notare che entrambe le emissioni, come la gran parte di quelle degli
altri stati, non erano dentellate, il che costringeva gli utilizzatori ad usare
le forbici per separare i singoli esemplari, seguendo gli spazi bianchi lasciati
sul foglio. Questo spiega l’esistenza di francobolli con margini più o meno ampi
e regolari. Solo in seguito prevalse l’abitudine di dentellare i francobolli,
rendendone più facile l’uso.
Un’altra curiosità riguarda l’abitudine di falsificarli, sin dal primo
momento, e di frodare le poste, utilizzando i mezzi più ingegnosi.
Con l’emissione del gennaio 1858, comunque, inizia una nuova era anche
nel Meridione, ponendo fine all’epoca pre-filatelica.
Pensando alle disfunzioni delle poste odierne, qualcuno, ignorante o in
malafede, ha parlato della solita pesante eredità borbonica. Niente di più
sbagliato. A Napoli le poste funzionavano, e anche bene, malgrado i falsi e le
frodi.
Dalla capitale partivano alcuni “cammini”, alcuni itinerari standard che
permettevano di distribuire la corrispondenza nel Regno. Il “Cammino di Puglia”,
in particolare, andava percorso immancabilmente in 50 ore, toccando, tra
l’altro, Bovino, Foggia e Cerignola, per poi chiudersi, tappa dopo tappa, a
Lecce. Da Foggia, nella nostra provincia, si diramavano i “cammini traversi”,
ossia secondari, che andavano a San Severo, Lucera e Cerignola. I Borboni
puntarono più sulle vie di mare che di terra, com’è noto, ma, lo ripetiamo, il
sistema funzionava bene.
Lo prova, ad esempio, una lettera spedita il 16 maggio 1860 da San Severo
a Napoli. Oggi, se va bene, arriverebbe in due-tre giorni, ma abbiamo davanti
agli occhi anche alcune missive che hanno impiegato, nell’anno di grazia 2010,
ben 15 giorni per percorrere 30 chilometri. Ebbene, la lettera in questione, nel
1860, è giunta nella capitale, come prova senza ombra di dubbio il timbro
d’arrivo, posto sul verso, il 18 maggio, a distanza di due giorni. Tra l’altro,
non siamo in un periodo proprio tranquillo, visto che ci troviamo nello stesso
mese in cui Garibaldi sbarca in Sicilia con la sua spedizione dei Mille. Dunque
i tempi sono gli stessi di oggi, malgrado gli enormi progressi delle
comunicazioni.
Non si tratta di un esempio isolato, ma abbastanza normale. E poi si
parla in termini spregiativi di “burocrazia borbonica”! Forse bisognerebbe
parlare di inefficienze italiane o, meglio, di cattive abitudini proprie di
tutti i tempi, ma non diamo tutta la colpa ai Borboni, che hanno regnato per
meno di 130 anni, poca cosa davvero, se si pensa al vasto respiro della storia.
La verità è che si è sempre in cerca di un capro espiatorio e per i Borboni,
come in generale per l’Italia meridionale, i pregi sono stati dimenticati,
mentre i difetti sono stati aggravati o, addirittura, inventati di sana pianta.
Con l’arrivo dei Piemontesi e con l’annessione, sancita da plebisciti
sulla cui regolarità è meglio stendere un pietoso velo, simili per molti versi a
quelli del periodo fascista, con lo stesso risultato di abolire il dissenso,
com’è stato documentato da vari storici, inizia una fase di transizione.
Il tentativo di inviare subito i francobolli piemontesi si scontra con le
difficoltà provocate dalla diversa valuta e con la scarsa simpatia che i
meridionali hanno per la lira. A Sud si usa il ducato, diviso in 10 carlini, 100
grana e 200 tornesi. Di conseguenza, nel febbraio 1861 da Torino viene inviata
nelle Province Napoletane un’emissione di 8 valori che presenta l’effige di
Vittorio Emanuele II, ma utilizza ancora il tornese e i grana. E’ una bella
serie in diversi colori, che ha molti estimatori e resta valida fino all’ottobre
del 1862.
Le peculiarità del Sud, insomma, rendono necessaria una qualche forma di
prudenza, proprio mentre in varie regioni impazza la rivolta del brigantaggio,
una composita reazione alimentata dalla reazione delle plebi meridionali per
l’esordio del nuovo Stato. Alle istanze sociali la neonata Italia risponderà con
il piombo e le leggi speciali, con l’alleanza con i ceti egemoni, perdendo una
grande occasione di sviluppo e di vera fusione. Un fallimento che per decenni si
pensò di nascondere sotto l’epiteto infamante di “briganti” e con la complicità
di storici interessati e conformisti, che continuano ancora a prodigarsi per
difendere l’indifendibile.
Al 1861 si lega anche, tra l’altro, la mancata diffusione di una serie di
5 francobolli riportanti il valore in centesimi di lira, che restò sconosciuta
fino al 1925 e che è al centro di una storia interessante e piena ancora di
alcuni lati in ombra. Di certo, chi possiede uno dei pochi esemplari usati di
nascosto ha in casa un esemplare di notevole valore. Basti pensare che l’unica
busta esistente vale circa 350 mila euro.
Insomma, la lira, che ricordava così tanto i piemontesi, fu uno dei tanti
bocconi amari che i meridionali dovettero ingoiare. Alla fine, comunque,
l’effige di Vittorio Emanuele II e la nuova moneta dominarono senza ostacoli la
scena, rendendo familiare a tutti gli italiani quel volto che già da anni
spiccava sui francobolli del Regno di Sardegna. Di nuovo ci fu solo l’aggiunta
di una dicitura che faceva diretto riferimento al nuovo stato italiano, che era
ancora in attesa di regioni importanti, come il Veneto e il Lazio. Nel 1863 i
francobolli presero ad avere una filigrana, detta “corona”, e il moto del
brigantaggio si avviò pian piano a spegnersi, sotto i colpi della repressione.
Il Regno di Napoli non ritornerà più, se non nei propositi di qualche
nostalgico. Resteranno, però, i meridionali, sempre più contrapposti ai
settentrionali, nell’attesa del giorno in cui nasceranno davvero gli italiani.
Lo attendiamo da 150 anni.