I DUE PIATTI DELLA BILANCIA DI DON ANGELO
Qualche tempo fa ci è capitato di leggere la copia di una lettera del 1931, appartenente al cospicuo e interessantissimo Fondo Fraccacreta: si tratta di alcune migliaia di volumi, la cui sistemazione è stata pressoché ultimata in un’apposita sala, e di moltissimo materiale epistolare, questo invece ancora purtroppo da ordinare e inventariare.
Il Fondo, oggi conservato presso la Biblioteca Alessandro Minuziano di San Severo, apparteneva al ramo del poeta Umberto, per cui vi si trovano anche documenti del padre, l’avvocato Michele, e dei fratelli.
La lettera, bellissima, molto curata, che immaginiamo letta e riletta più volte, era indirizzata al prof. Angelo Fraccacreta, a pochi mesi dalla morte della figlia Anna, ma non era firmata; pensammo, così, che fosse opera del poeta del Tavoliere. Quello che ci incuriosì, tra l’altro, era il riferimento esplicito ad un opuscolo preparato per l’occasione, con vari contributi, un testo che però non era conservato in nessuna biblioteca, né quella di San Severo né quella di Foggia, dove pure esiste da tempo un fondo librario appartenuto all’economista.
Si trattava evidentemente di un testo circolato solo tra parenti e amici intimi, e proprio cercando tra i discendenti della famiglia abbiamo potuto finalmente leggere l’opuscolo in questione, stampato dalla Laterza di Bari, nel quale era compresa anche la lettera di partenza, che si scoprì opera non di Umberto, ma del fratello Augusto, l’ultimo custode del palazzotto della famiglia di via Mercato, oggi via Umberto Fraccacreta, scomparso nel 1980, un altro personaggio dalle spiccate qualità e dai vivi interessi culturali, come attestano la sua prestigiosa carriera presso un ministero romano e alcune pubblicazioni.
Oltre alle testimonianze di familiari e amici, il libretto conteneva, in apertura, delle toccanti pagine scritte dal padre della povera Anna, da Angelo, intitolate Una vita pura.
Ecco che si presentava la possibilità di fare luce su quello che è stato il grande dolore della vita dell’economista pugliese, un lutto portato per tutta la vita e che ha lasciato delle tracce anche in letteratura, ossia in alcuni versi del cugino Umberto e in un capitoletto del romanzo Il conservatore, scritto da Nino Casiglio, uno dei giovani allievi dell’economista, che da lui appresero non tanto dei concetti, quanto una duratura lezione di vita, che è il massimo per un maestro (non a caso a don Angioletto, il diminutivo con il quale l’economista era conosciuto nella sua città natale, Casiglio ha dedicato a più riprese delle bellissime pagine critiche).
Le toccanti parole di Angelo sono ancora più ragguardevoli se si pensa che quasi tutti quelli che lo hanno conosciuto ci hanno lasciato il ricordo di un uomo austero, chiuso, anche se straordinariamente ricco di qualità umane, che emergevano solo con il contatto diretto e solo se si aveva la capacità di apprezzare il suo carattere di personaggio atipico, che sembrava fatto apposta proprio per dimostrare la verità di quel passo del Vangelo, nel quale si ammonisce che le perle non si danno ai porci. Ma quanti non hanno pazienza o credono di aver capito tutto?
Con il senno del poi, la sua storia era in fondo per intero scritta in questo suo modo di essere, così antitetico rispetto al rampantismo e all’opportunismo di sempre, così basato sulla sostanza umana a dispetto dell’apparenza.
Vedremo dopo con più attenzione le conseguenze di questo suo modo di essere, che qualcuno, sulla base di preconcetti di natura classista, collegava alla sua superbia di benestante, ed è singolare il fatto che ancora di recente ci siamo imbattuti in testimoni diretti che si esprimono in questo modo su don Angelo, come del resto su don Umberto, malgrado il tempo abbia fatto giustizia di tanti pregiudizi e di altrettante facili illusioni.
Di certo, l’economista era un uomo al quale la vita ha dato molto, ma ha anche chiesto delle pesanti contropartite: gli ha offerto un’agiata condizione economica e delle indubbie doti di intelligenza e di generosità, ma gli ha posto sull’altro piatto della bilancia l’incomprensione, della quale fu vittima in tante circostanze, e il dolore di vedersi privato della sua primogenita, Anna, la figlia morta di leucemia che oggi riposa insieme a lui nella cappella monumentale del Carmine, nel cimitero di San Severo.
Qui sono riuniti tanti Fraccacreta, membri di quella che è indubbiamente la famiglia più prestigiosa della città dauna, ma la cui importanza esula di gran lunga dall’angusto limite cittadino, com’è attestato autorevolmente, del resto, dal prestigioso Dizionario biografico degli Italiani della Treccani, che ad essa ha dedicato nel 1997 tre schede, rispettivamente, all’economista, al poeta e allo storico Matteo, loro antenato, autore del fondamentale Teatro topografico storico poetico della Capitanata, che tutti i cultori di storia patria hanno avuto tra le mani.
Padre e figlia sono lì, nella stessa tomba monumentale, nella stessa fila, vicinissimi; proprio nel loculo immediatamente inferiore a quello della diletta Anna, infatti, a distanza di venti anni, si fece seppellire Angelo, anch’egli morto a Napoli, mentre più in alto, leggendo tra i tanti nomi, si trovano anche quelli della vedova, Maria Pellegrino, scomparsa nel 1956, e della figlia Lucia, morta nel 1971.
Nel 1986 alcuni insigni studiosi italiani, per lo più dell’Università di Napoli, ossia Giuseppe Cuomo, Domenico da Empoli, Michele Fuiano, Simona Colarizi, Franca Assante, Antonio Sarubbi, Antonio Maria Fusco, Nino Casiglio e Francesco Maria de Robertis, si sono riuniti a San Severo per un convegno su Angelo Fraccacreta- l’uomo e l’opera, i cui atti sono apparsi nel 1988, a cura di Benito Mundi, salvando dalla dispersione molte utili testimonianze.
In Appendice si legge un Ricordo di Angelo Fraccacreta di Bruno Foà, che contiene un passo molto interessante per il nostro tema: "La sua conversazione era caratterizzata da identica finezza di osservazione e giudizio, si parlasse di persone o di cose, dei fatti politici del giorno o della cronaca universitaria spicciola, o finalmente di teoria e letteratura economica. Mai in tanti anni raccolsi dalle sue labbra un apprezzamento malevolo nei confronti di una sola persona, né il minimo accenno alle avversità private (massima la perdita di una giovane figliuola, il cui lutto portò per il resto della sua vita), politiche ed accademiche che lo colpirono".
Il dolore di Anna restò chiuso in lui, intuito benissimo da quanti lo conobbero e lo frequentarono da vicino, sempre vivo ma altrettanto costantemente e pudicamente lasciato nel fondo della sua anima, come uno scrigno personale.
Un altro testimone, il prof. Francesco Maria de Robertis, dell’Ateneo di Bari, così scrive: "Sempre controllato nel tratto, inappuntabile nel vestire (in nero quando io ho preso a frequentarlo, a memoria di una figliuola prematuramente perduta), succinto nell’eloquio, dava costantemente, pur senza alcuna posa di superiorità l’impressione di una grande padronanza dell’argomento in questione".
Il suo abito scuro sotto la camicia bianca sarà uno dei tratti distintivi di Angelo, per il quale gli studiosi succitati hanno, in modo concorde, parole di viva stima, sottolineando, anzi, che come uomo valeva anche di più di quello che emerge dall’esame della sua produzione scientifica, che pure è ragguardevole, specie se si pensa al suo capolavoro, La trasformazione degli impieghi d’intrapresa, del 1920, e al mirabile libro Le forme del progresso economico in Capitanata, che è del 1912.
Un testo, quest’ultimo, che si rivolge ad un pubblico più ampio e meno specialistico e che non ha perso la sua importanza, né per quanto riguarda l’analisi del passato storico della provincia, ricostruendo con dovizia di dati e di acute analisi il passaggio dalla pastorizia alla cerealicoltura e poi alla viticultura, nel secolo scorso, né per quanto riguarda il rifiuto del meridionalismo piagnone, in nome di una piena fiducia nelle capacità delle genti meridionali, già protagoniste del dissodamento del Tavoliere, alle quali spetta ancora l’iniziativa, senza attendersi improbabili miracoli dall’alto.
Don Angelo aveva la vista lunga, senza dubbio, e soprattutto, altro elemento di indubbia modernità, non si faceva ingannare dalle ideologie, di cui detestava la carica inquinante dei veri rapporti economici, che erano poi il fulcro dell’interesse, il vero punto di riferimento, per non perdere di vista le cose nella loro pregnanza e concretezza.
Se le sue opere sono ancora così ricche di fascino, come si può verificare in modo diretto leggendo, ad esempio, l’ampia antologia del 1966 Scritti meridionali, che comprende anche l’illuminante saggio del 1923, L’aspetto politico della vita meridionale, immaginiamo, per rimanere alle affermazioni dei professori succitati, quanto fosse importante, diremmo anzi lievitante, il rapporto diretto con un tale maestro, scomparso quasi cinquant’anni fa.
Il tempo porta via con sé i testimoni diretti, ma per fortuna non cancella le testimonianze scritte, e neppure le prove di un generoso impegno giovanile, che ha visto il Nostro dedicare una parte del proprio tempo alla pubblicistica pugliese.
Di qui la scoperta, molto rassicurante per noi che non siamo economisti, del letterato Angelo Fraccacreta, grazie alla raccolta, appartenuta proprio all’economista, del quindicinale culturale La Vita, conservata nella Biblioteca Provinciale di Foggia.
Si tratta di una rivista interessantissima, diretta dall’avvocato Dante Gervasio, che apparve nel 1901 a San Severo, per complessivi 24 numeri, e che ebbe come collaboratori l’amico diletto, il futuro farmacista Manlio D’Anzeo, ma anche Giuseppe Checchia-Rispoli, geologo e paleontologo, futuro docente all’Università di Roma, Pantaleo Carabellese, il futuro successore di Giovanni Gentile, e lo studioso e onorevole Michele Vocino.
Il diciannovenne Fraccacreta si impegna a fondo, scrivendo articoli in cui esalta Carducci, d’Annunzio e le idee patriottiche, celebra Garibaldi e il generoso Cavallotti; d’altra parte, pubblica sulle capienti pagine della rivista anche le sue poesie, per lo più nascoste sotto gli pseudonimi di Conte Rosso e Conte Nero, ragion per cui sono passate a lungo inosservate.
Nel caso della lirica Sogni candidi si firma più comprensibilmente Angiolo Fraccacreta, e a noi giunge dolce come lo zucchero la fantasia d’amore del giovane:
Poi dolce ne i capelli che hanno il solco
de le tempeste, le tue rosee dita
(o rosee dita lievi sì come ali
fuggenti) io sogno che scorran con moto
dolce ne i miei capelli che hanno il solco
de le tempeste. E una lenta fiorita
(donde piovuta?) in sue spire leggiere
par che ne avvolga, o vergine pensosa.
Così cadere io lascerei la vita".
Anche i futuri economisti hanno avuto vent’anni e un quaderno di versi nascosto in un cassetto! Come non vedere in queste sue liriche un indiscutibile segno del suo animo nobile e sensibile? Gli anni, con le loro delusioni e i loro dolori, renderanno Angelo più chiuso e realista, il letterato lascerà spazio all’economista, ma i suoi pregi interiori resteranno intatti.
Il giovane Angelo non lesina gli sforzi per migliorare le condizioni della sua città natale, ponendo l’accento sulla necessità della sua crescita culturale e spirituale, e in quest’ambito si inseriscono anche la sua successiva militanza nelle file radicali, dal 1904 in poi, accanto all’amico D’Anzeo, e gli scritti giornalistici, pubblicati a Napoli nel 1908 in Note di politica radicale.
Sono cinque articoli per i quali si può ripetere il discorso appena fatto, visto che ci permettono di apprezzare a fondo la sua coerenza e la sua onestà intellettuale, pagine che innamorano, specie quelle di In tema di doveri, in cui mostra di preferire la figura di don Chisciotte a quella dei presunti padroni del mondo, abili solo nei sotterfugi e nei compromessi.
L’approdo di questo periodo di impegno politico è la nomina a consigliere provinciale, nel 1910, in una tornata in cui l’altro eletto sarà il bianco on. Antonio Masselli, un’esperienza che si chiuderà con le dimissioni nel 1914, come segno di delusione e di stanchezza per il mediocre scenario provinciale.
Inizierà poi, come ha sottolineato nei suoi scritti Nino Casiglio, la sua fase più dedita agli studi, dopo la guerra mondiale, con la pubblicazione, nel 1920, a Napoli, del già citato saggio sugli impieghi d’intrapresa, la libera docenza partenopea di economia politica, nel 1922, la nomina all’Università di Messina, come incaricato di Scienze delle finanze, nel 1924, e l’approdo a Bari, nel 1926, come ordinario di Economia politica, in una realtà universitaria ai suoi esordi, dove doveva lasciare un segno molto profondo, consacrato dalla nomina a rettore, nel cruciale 1943.
L’ultimo atto della sua vita fu il ritorno da docente a Napoli, nel dopoguerra, fino alla sua repentina scomparsa, a 69 anni.
Cambieranno le modalità del suo impegno, ma non le ragioni profonde dello stesso, di cui ha dato sempre testimonianza nel migliore dei modi, armonizzando la parola e l’azione, o, meglio, dando testimonianza delle sue idee attraverso il suo agire, come dovrebbe essere rispettando la regola più violata di tutte, dall’alba dei tempi.