IL DIALETTO, L'ITALIANO E LE ELEZIONI REGIONALI
Il tema del dialetto sta animando anche la campagna elettorale
per le elezioni regionali, ormai in fase avanzata. Certe rivendicazioni stanno
trovando una vasta eco anche al Sud, per cui prima o poi qualche Ente locale
utilizzerà anche da noi i centralini con comunicazioni in tre lingue, italiano,
inglese e dialetto, come in qualche landa della Padania. Ormai non c’è da
meravigliarsi più di nulla.
Ma siamo davvero convinti che i tempi siano maturi per
quest’apologia indiscriminata del dialetto? Intendiamoci: come strumento di
conoscenza, come collante con la propria terra, il dialetto va benissimo e in
quanto tale lo parliamo volentieri anche noi. Ma il dialetto nelle scuole, al di
là di tutte le difficoltà collegate con questa scelta, difficilmente potrà
servire a qualcosa di utile.
Nel passato le scuole sono state le più fervide nemiche del
vernacolo, ritenendo che gli studenti dovessero apprendere soprattutto la lingua
nazionale, superando antichi e gravi condizionamenti culturali e sociali. E’
stato un impegno che ha dato i suoi frutti, grazie all’innalzamento della
scolarizzazione, da un lato, e alla diffusione dei mass-media, dall’altro. Ma
oggi questa guerra, per così dire, non è stata ancora vinta.
La diffusione di massa dell’italiano ha portato con sé anche
dei risvolti decisamente negativi. In molti le conoscenze sono superficiali e
frammentarie, con dei limiti resi più gravi dallo scadimento dell’istruzione
scolastica e, nel contempo, dei programmi televisivi. Gli studenti ormai parlano
con poche centinaia di termini, com’è stato evidenziato da più parti, e gli
adulti non sono in condizioni migliori. Si parla di analfabetismo di ritorno:
molte persone, anche con titoli di studio superiore, non sono più in grado di
esprimersi con correttezza, né oralmente né, a maggior ragione, utilizzando la
scrittura. L’uso coerente dei registri linguistici, ad esempio, è diventato raro
come l’araba fenice. I termini si mescolano alla rinfusa, infarcendo il tutto
con quegli errori di grammatica segnalati negli esami di stato per la
professione di avvocato, ma non solo in essi. E che dire dei concorsi a
cattedra? Anche qui gli svarioni grammaticali si contano a decine.
Pochi anni fa litigammo con un politico che ci aveva mandato
un comunicato stampa zeppo di sgrammaticature e di periodi sintatticamente
zoppicanti. Si era offeso per i nostri rilievi, sottolineando che aveva una
laurea. In fondo, stava solo peggiorando la sua situazione, ma non glielo
dicemmo, per non provocarlo ulteriormente.
E tra gli studenti di lettere come vanno le cose? A tal
proposito abbiamo un aneddoto, raccontatoci da un amico che insegna in una nota
università del Nord. Una studentessa, nel corso di un esame, usa in maniera
strana il termine “mesto”; insospettito, il docente le chiede il significato
della parola, ricevendo una risposta sconcertante: “povero”. Eppure si tratta di
un termine molto diffuso nella tradizione letteraria. A quel punto decidemmo di
chiederlo anche ai nostri studenti liceali, ma con nostra grande sorpresa anche
loro non avevano le idee chiare. Diciamo che su 10 studenti non più di 2 o 3 ci
hanno risposto in maniera corretta. Molti docenti, spiegando ad esempio
Petrarca, non ritengono che “mesto” sia un vocabolo che meriti un’attenzione
particolare, ma a quanto pare si sbagliano, e con loro gli autori dei libri di
testo.
Anche attraverso questi brevi esempi viene fuori la necessità
di continuare l’impegno a favore dell’italiano. Servono cure energiche e non
semplici brodini ed aspirine. Si parli pure di federalismo, di peculiarità
regionali, di riscoperta delle tradizioni locali, ma non buttiamo quanto di
buono abbiamo faticosamente ottenuto per inseguire argomenti alla moda e qualche
follia frutto di ignoranza, nordista o sudista che sia.