“CAMERA DI GUARDIA” DI ENRICO FRACCACRETA
LA NECESSITA’ DELLA POESIA
I FALO’ DEL TAVOLIERE
E’ da poco in libreria l’ultimo lavoro di Enrico Fraccacreta, la silloge poetica “Camera di guardia”, edita dalla casa editrice “I Quaderni del Battello Ebbro” di Loretto Rafanelli (Porretta Terme, Bo, pagg. 73, euro 8).
Sanseverese, classe 1955, Fraccacreta nell’ultimo periodo ha legato il suo nome a quello di Andrea Pazienza, al quale ha dedicato il volumetto “Il giovane Pazienza”, rievocazione degli anni trascorsi con il suo amico prediletto, il compagno fidato dell’adolescenza, che ha poi seguito una strada che doveva portarlo alla notorietà, ma anche ad una fine prematura. L’opera, apparsa nel 2000, ha conosciuto almeno 4 edizioni e continua a vendersi, colmando una lacuna sull’argomento.
Fraccacreta, però, è soprattutto un poeta, e lo ha ricordato ai lettori con quest’ultima fatica, che giunge a 10 anni esatti da “Tempo medio”, una raccolta, edita a suo tempo dalla Bastogi, altrettanto intensa e frutto di uno scavo approfondito nel mondo della parola e dei sentimenti.
Già i nudi dati cronologici attestano la serietà del rapporto del Nostro con la poesia. Fraccacreta è evidentemente abituato a seguire il suo ritmo interiore senza accelerazioni o concessioni esterne, persuaso che la poesia abbia i propri tempi, che non accettano stravolgimenti, se non a costo di perdere di profondità.
Di sicuro, “Camera di guardia” è un libro intenso, in cui si sviluppa una riflessione sul tempo e sulla vita, sulle memorie personali e collettive, sul mondo interiore e su quello esteriore. E’ il ritmo dell’esistenza, quello che si coglie al fondo delle parole, filtrato da una personalità poetica fortemente rilevata. Proprio la densità, in fondo, spiega certe caratteristiche della silloge, in cui il lettore deve abbandonare la strada della lettura piana e distesa, per cogliere gli squarci, i barlumi, le luci di una originale interrogazione della realtà.
E’ una poesia sicura di sé, schiva e rarefatta, che domina la piena dei sentimenti, l’enfasi della frase clamorosa. Nei versi di Fraccacreta non c’è mai spocchia, gratuito compiacimento, ostentazione. Potremmo dire che si tratta di un’arte che chiede molto, ma sa ricambiare con generosità gli sforzi interpretativi. E di tutto ciò il poeta è ben consapevole.
In quest’ottica, pertanto, si spiegano le pagine in prosa inserite nella silloge, in particolare quelle di “Un racconto per le generazioni future”, in cui ritornano figure del passato familiare, assunte per la loro significatività a simboli del trascorrere del tempo. Lo stesso significato si può assegnare senz’altro anche alle fotografie, con la loro intrinseca malinconia, con quel senso di stanchezza che nasce di fronte a uomini che non ci sono più, a momenti rimasti vivi solo sulla carta.
Il poeta si è accampato in una “camera di guardia”, per riprendere il titolo del libro, in uno spazio da dove si coglie la dimensione più profonda del reale. Di lì, guardando dentro le altre stanze o al di fuori, egli ricostruisce il fluire degli eventi, ritrova la dolcezza del passato, trova un senso per riprendere il cammino. Il racconto conclusivo, appena citato, termina così: “Io nacqui quando ardevano i falò di gennaio, nel Tavoliere delle Puglie. E la prima cosa che ricordo è l’odore delle mandorle battute nell’atrio dai contadini. Abitavamo tutti nella grande casa. Tra la vecchia e la nuova famiglia, tra il vecchio abisso e quello che doveva arrivare, ci separava un piano ed un indizio, da non sciupare, una camera di guardia”.
Le dimensioni temporali si ritrovano unite, nella magia del verso, e la malinconia che nasce di fronte a chi non c’è più trova una consolazione allargando lo sguardo, lungo le vie del tempo e dello spazio.
LA VITA E LA MORTE
Il libro è diviso in tre parti, “Camera prima”, “Camera in campagna” e “Ultima camera”, prima del brano in prosa finale già ricordato. Lo sfondo comune a queste liriche, l’humus che permette al Fraccacreta di nutrire i suoi versi, è sempre lo stesso, il mondo del Tavoliere, la campagna intorno a San Severo, come giustamente scrive nella sua introduzione, sul risvolto della copertina, Loretto Rafanelli, concludendo con un’affermazione che condividiamo in toto: “Un libro di poesia si giustifica quando ciò che lo sottintende è quel fiume carsico che scorre nel profondo, come diceva Geno Pampaloni, e pare di poter sottolineare che la riuscita di questo libro, con il suo tono alto, teso, sta proprio nella sensazione che lascia di una poesia dove è forte e profonda la necessità di un dire”.
La campagna, spesso presente nel volume, domina soprattutto nella seconda sezione del libro, che si apre con il ricordo del nonno, figura austera e insieme tenera, che aveva sempre un occhio di riguardo per il giovane nipote (“Ero il birillo al centro/ che risparmiava sempre”). La natura è bella, è stupenda, ma non può escludere la morte, che fa capolino in non pochi momenti (“il vento negli ulivi già conserva/ quel guizzo brillante che t’assomiglia/ per stamparti sul bianco della calce/ così educato nella fotografia”).
Nell’ultima sezione c’è una lirica più diretta, nella quale domina il pensiero del padre scomparso da poco, al quale Fraccacreta dedica l’intera silloge. Ci riferiamo alla trentaquattresima lirica, che si apre con questi toccanti versi: “Ti ho lasciato la posta sul tavolo/ papà/ il giornale col pezzo/ che t’avrebbe interessato/ resta lì ad aspettare/ le tue mani, il commento/ sulla pagina ferma/ alla data che s’impolvera/ dietro la porta chiusa”. La quotidianità svela, nella luce memoriale, il suo profondo significato. La poesia termina sul pensiero dell’ultimo viaggio, topos sempre vivo della poesia umana: “Sembra un viaggio sicuro, papà/ ma questo salti in avanti/ è un tratto dove non c’è più nessuno/ di noi, nemmeno una voce/ uno sguardo che possa ancora tradirti/ farti tornare indietro,/ sui nostri passi incerti”.
Sono momenti commossi, che compensano, in fondo, gli altri momenti, quelli in cui il lettore avverte l’incapacità di andare oltre, malgrado i propri sforzi. Sempre, comunque, in “Camera di guardia”, appare vivida la necessità della poesia, la sfida ai vuoti e ridicoli idoli del nostro tempo.
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