IL RISORGIMENTO TRADITO
"NOI CREDEVAMO" DI ANNA BANTI
Nel corso dell’ultima mostra internazionale del cinema di Venezia, prendendo spunto dal centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, è stato rappresentato il film del regista Mario Martone, intitolato “Noi credevamo”, liberamente tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice Anna Banti. Per l’occasione, il testo dell’opera letteraria è stato riproposto dalla Mondadori, permettendo a molti di scoprirlo (pp. 348, euro 9,50).
Il vero nome della Banti, nota anche per aver sposato lo storico dell’arte Roberto Longhi, era Lucia Lopresti. Nata a Firenze nel 1895, ma calabrese di origini, è scomparsa nel 1985, lasciandoci varie opere, tra cui, per l’appunto, “Noi credevamo”, che apparve per la prima volta nel 1967.
L’ampio romanzo racconta la storia della delusione esistenziale di Domenico Lopresti, un democratico calabrese di buona famiglia, che paga con il carcere duro, sotto i Borbone, la passione per le sue idee. Trascorre anni di sofferenza, incatenato in luoghi oscuri, fino a quando l’arrivo di Garibaldi e la fine del regno borbonico non lo riportano in libertà. Il protagonista spera di poter incidere sugli eventi, ma alla fine resta fortemente deluso.
Quando l’opera si apre siamo nel 1883 e Domenico, ormai anziano e malato, vive a Torino, in un ambiente che non lo comprende e non lo accetta. Ripensando alla sua vita, non riesce a trovare degli errori, ma sa, di certo, che il mondo è rimasto uguale rispetto a come lo ha trovato. Di qui l’amarezza del suo fallimento, di fronte al prevalere della solita logica gattopardesca. L’opzione monarchica e moderata, da lui detestata ed avversata, ha prevalso.
Questo fondo di amarezza porta con sé inevitabilmente il ricordo del
“Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. Il Risorgimento viene riletto senza
entusiasmi e soprattutto da un’angolatura diversa, quella di chi si aspettava il
trionfo della giustizia. Ad un mondo che detiene le leve del potere e non ama i
“napoletani” si contrappone una realtà sempre più povera e trascurata, nella
quale la fame di terre dei contadini resta immutata. L’incontro vero tra le due
parti dell’Italia non avviene, anzi, le distanze tendono ad aumentare, obbedendo
ad una logica perversa e non casuale.
Di tutte le speranze incarnate da Domenico Lopresti, pertanto, non resta
più nulla. E’ un romanzo che vale la pena di leggere, dal ritmo lento, corposo,
ma anche ricco di verità troppo spesso ritenute scomode, a lungo cancellate in
nome del conformismo e della retorica imposti dai vincitori.