POESIA

I SOGNI CANDIDI DELL'ECONOMISTA ANGELO FRACCACRETA

 

Ci sono delle categorie che sembrano lontanissime dal mondo della poesia. Si pensi, ad esempio, ai matematici ed agli economisti, abituati a ragionare con i numeri. Eppure l’apparenza spesso inganna e tra i due mondi ci sono molti più nessi di quanti si possa immaginare. La verità è che tutti siamo poeti, almeno in un periodo della nostra vita, magari quando si hanno 18 anni e si crede fermamente che il mondo stia aspettando noi. 

Una prova di quanto affermiamo ce la fornisce uno tra gli economisti più importanti della nostra Capitanata, Angelo Fraccacreta. Nato a San Severo nel 1882 e scomparso a Napoli nel 1951, ha lasciato un vivo ricordo di sé per i suoi studi, ricchi di dottrina e di passione. Dopo aver insegnato a Bari, nell’allora giovane facoltà di Giurisprudenza, tra il 1943 e il 1944 riveste l’incarico di Rettore, per poi passare a Napoli, dove ottiene la cattedra di Scienza delle finanze e diritto finanziario.

Chi legge Le forme del progresso economico in Capitanata, del 1912, resta colpito dalla sua serrata e precisa analisi dei cambiamenti che hanno modificato il volto della nostra terra, nel cruciale passaggio dalla pastorizia all’agricoltura. Ma Angelo Fraccacreta è stato anche un poeta, nei suoi anni giovanili, ed ha affidato le sue liriche ad una rivista culturale pubblicata nel 1901 a San Severo, “La Vita”.

         Queste poesie aprono uno squarcio su di una personalità di grande valore umano, prima che scientifico. Una di queste è intitolata Sogni candidi, ed è firmata “Angiolo Fraccacreta”, modificando in modo deliberato il nome.

 

 

SOGNI CANDIDI

    

Quando veglia la notte su l’umano

riposo, alta nel cielo, ed io reclino

il capo stanco, e il piccioletto libro

 che serba il pianto de le genti morte,

cade, sfuggendo da l’aperta mano;

quando, la notte, un sopore divino

          sento fluirmi per le membra come

vena sottile d’acqua; allora un dolce

desio mi prende d’esserti vicino.

 

E sogno di poggiar su i tuoi ginocchi

la stanca testa come il fiero Amleto,

roso dal dubbio, nel vergineo grembo

de la candida Ofelia; e bere a lungo

il filtro oblivïoso ch’è ne gli occhi

azzurri tuoi; e al favellare cheto

di vecchie fiabe de la fanciullezza,

su i tuoi ginocchi addormentarmi come

a sera addormesi un bimbo inquïeto.

 

Poi dolce ne i capelli che hanno il solco

de le tempeste, le tue rosee dita

(o rosee dita lievi sì come ali

fuggenti) io sogno che scorran con moto

dolce ne i miei capelli che hanno il solco

de le tempeste. E una lenta fiorita

(donde piovuta?) in sue spire leggiere

par che ne avvolga, o vergine pensosa.

Così cadere io lascerei la vita.

 

           

            La lirica, datata luglio 1901, è formata da tre strofe uguali, ciascuna di nove versi endecasillabi, con schema fisso. Si tratta di un sogno d’amore descritto con giovanile innocenza, in cui il Fraccacreta, studioso e dall’animo inquieto, ritrova la sua donna, dolcissima e materna. 

In questa poesia si notano le sue predilezioni per il Dante della Vita nuova e per il filone amoroso spiritualistico della tradizione italiana, oltre che per la triade del secondo Ottocento, quella, per intenderci, formata da Carducci, Pascoli e d’Annunzio.

         La dolcezza di questa lirica è un omaggio al fanciullino che è in tutti noi, anche nei futuri economisti.


     

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