ESTATE 2008. A PALAZZO FIORITTO

PRESENTATA A SANNICANDRO GARGANICO LA MONOGRAFIA SU PETRUCCI

 

         Lo scorso 25 luglio 2008, nell'ambito del ciclo di manifestazioni "Estate 2008 a San Nicandro Garganico", nell'interno di Palazzo Fioritto, è stato presentato il volume di Francesco Giuliani "Alfredo Petrucci.  Le lettere, il Gargano e lo scrittore" (Edizioni del Rosone). Alla serata hanno preso parte: l'assessore alla cultura della città, prof. Giuseppe De Cato, a responsabile delle Edizioni del Rosone, prof. ssa Falina Marasca, il responsabile della Biblioteca di Sannicandro Garganico, Vincenzo Civitavecchia, l'autore del libro, prof. Francesco Giuliani.

         L'assessore De Cato, aprendo i lavori, ha rimarcato l'importanza di un libro come quello in questione, che dà il giusto risalto ad un protagonista della cultura pugliese e nazionale, come Alfredo Petrucci, a cui non a caso qualche anno fa è stata dedicata la biblioteca comunale di Sannicandro Garganico.   

         La prof. ssa Marasca ha posto l'accento sullo sforzo di promozione della Puglia, dal punto di vista culturale, portato avanti dalla casa editrice foggiana, che ha puntato sin dal primo momento sulla valorizzazione delle risorse del territorio. 

         E' poi seguita la dotta e acuta relazione del responsabile della biblioteca locale, Vincenzo Civitavecchia, che ha chiarito benissimo il senso del lavoro di Giuliani e l'importanza di Petrucci nel nostro contesto storico e culturale, riscuotendo molti consensi.  

         Giuliani, infine, ha ringraziato i presenti, il relatore e l'assessore alla cultura, esprimendo la propria soddisfazione per la serata culturale in questione, tenutasi proprio nel paese natale di Alfredo Petrucci, un autore al quale si sente molto legato.

 

Petrucci in un quadro conservato nella Biblioteca di San Nicandro Garganico

          

 

 

LA RELAZIONE DI VINCENZO CIVITAVECCHIA

 

 

 

      Così riaverti mi sembra

      un poco al giorno e m’acqueto,

      come il mendico cui pane

      giunga pietoso da ogni uscio.

 

        Questi versi o, meglio, questi ottonari che concludono la lirica Come il mendico, lirica fra le più belle contenute nel volume Dietro l’opaca siepe, pubblicato postumo nel 1979, in occasione del decennale della scomparsa dell’illustre letterato sannicandrese, esprimono nel modo più terso e immediato la cifra peculiare del poeta, dello scrittore, dell’uomo Alfredo Petrucci: l’attaccamento struggente, nostalgico, straziante alla propria terra e al proprio paese.

        La monografia di Francesco Giuliani squarcia la cortina di silenzio che negli ultimi anni era calata sull’opera di Alfredo Petrucci e nei sei capitoli in cui si articola lumeggia i vari aspetti della produzione letteraria del Sannicandrese.

        Fondamentale è, a mio avviso, il capitolo secondo, in cui Giuliani si sofferma sulle lettere del Fondo Petrucci della Biblioteca Provinciale di Foggia, cospicua raccolta  di manoscritti, autografi ed incisioni appartenuti ad Alfredo Petrucci.

        Le lettere vanno dagli anni Dieci del Novecento fino agli ultimi anni di vita dello scrittore e costituiscono un’ampia documentazione dei rapporti intrattenuti da Petrucci con il mondo della cultura contemporanea.

        Sono ben 320 i corrispondenti, fra cui si segnalano parecchi nomi famosi. Giovanni Gentile, ad esempio, gli indirizza 3 lettere. Giuseppe Bottai, che solo un anno prima, nel 1942, aveva proposto e ottenuto che il Re concedesse a Petrucci la medaglia d’oro dei benemeriti della cultura e dell’arte, in una lettera del primo aprile 1943 ringrazia Petrucci per i saggi d’arte già pubblicati sulla rivista Primato, augurandosi che la collaborazione alla testata continui. Abbiamo, inoltre, 24 documenti, per lo più cartoline, di Antonio Baldini, rondista della Nuova Antologia, che con Petrucci s’intrattiene a parlare di articoli apparsi sulla rivista o di progetti da concretizzare. E, ancora, le lettere di Giulio Carlo Argan, Roberto Longhi, Lionello Venturi, Cesare Brandi e Federico Hermanin oltre a quelle di scrittori quali Luciano Folgore, Ardengo Soffici, Corrado Alvaro, Ugo Betti, Massimo Bontempelli, Giulio Gianelli, Corrado Govoni, Marino Moretti, Diego Valeri e di  critici quali Francesco Flora e Adriano Tilgher.

       Così conclude Giuliani la prima parte del secondo capitolo, che riporto testualmente poiché mi sembra contenere alcune osservazioni particolarmente acute:

       “La sua sensibilità e la sua disponibilità, da una parte, e il suo amore per la scrittura, dall’altra, lo rendono un attento e prezioso interlocutore epistolare, sempre incline a scusare silenzi e omissioni. Le lettere, in fondo, come, d’altra parte, gli articoli giornalistici, vengono incontro a un suo bisogno di comunicare, che si spiega e insieme contrasta con la sua esistenza che tende sempre più a chiudersi in se stessa.”

        Ancor più interessante è, tuttavia, il carteggio con i pugliesi. Di Giacinto Spagnoletti, ad esempio, vi sono, tra lettere e cartoline, nove scritti. Giacinto Spagnoletti, critico letterario, poeta e romanziere, nato a Taranto nel 1920, s’era laureato in Lettere a Roma, con Natalino Sapegno.  Leggo quanto scrive Giuliani: “Gli anni dell’immediato secondo dopoguerra sono difficili per tutti e anche per lui non è facile trovare una sicura fonte di reddito. Nel 1947 egli ritorna per qualche tempo a Taranto, ed è proprio dalla città natale che indirizza a Petrucci la prima lettera conservata nel Fondo della Biblioteca Provinciale di Foggia, datata 9 febbraio. (...) Il critico ha appena ricevuto in omaggio da Petrucci alcuni libri, tra cui la silloge di racconti Romanzo d’una primavera, che provvederà a recensire sul periodico tarantino «La voce del popolo». Nella lettera non nasconde che il suo morale è davvero basso. Ritornato a casa, spinto dalla nostalgia e dal richiamo della madre, ha aperto una piccola libreria, ma ha dei seri problemi economici, com’è facile comprendere. La sua città sembra rifiutarlo e per questo motivo egli vorrebbe trasferirsi altrove, per trovare una qualsiasi occupazione. Lo stato d’animo non è migliore nella lettera successiva, del 23 giugno 1947, inviata sempre da Taranto, nella quale Spagnoletti racconta dei seri problemi di salute di una persona cara (...) Il critico preannuncia una sua visita a Roma, appena possibile. Il suo obiettivo, come chiariscono le lettere successive, è di ottenere un posto di docente, nelle scuole statali o in quelle private, e in questa legittima aspirazione chiede un aiuto anche a Petrucci, che come al solito non si tira indietro. Dalla successiva epistola, inviata da Mozzano di Parma, il 3 settembre 1947, si capisce che il Sannicandrese ha cercato di favorirne l’assunzione in un istituto privato. Il risultato non è stato soddisfacente, ma Spagnoletti non demorde e scrive: ‹‹Ma non dimentico pure di avere ancora delle speranze nelle scuole governative, e sapessi quante volte al giorno penso a te e al tuo cuore di amico e di padre! Tu sei finora una delle poche persone che mi abbiano dimostrato, oltre la stima e la fiducia, anche il desiderio di aiutarmi concretamente. Come potrò mai ringraziarti?››.

       Seguo ancora quanto scrive Giuliani: “La gratitudine di Spagnoletti raggiunge il culmine nella lettera del 3 ottobre 1947 (...). Il critico ha ricevuto un incarico dal Provveditorato di Milano, in una scuola commerciale, e racconta delle sue peregrinazioni per la città, in cerca di una sistemazione dignitosa. La permanenza nel capoluogo lombardo è comunque interessante, anche per le prospettive letterarie che apre, e Spagnoletti sa che si tratta di un passo necessario, che comporta un taglio netto con il passato: ‹‹Ho lasciato alle spalle la Puglia, e forse me la porterò nel cuore in modo più profondo e naturale. Laggiù, a viverci troppo, si impara persino ad odiarla››. Sono parole molto significative, nelle quali Petrucci, partito ben presto dalla sua terra, doveva sostanzialmente riconoscersi”.

        E, ancora, in un capoverso della lettera che Giuliani riporta giustamente per esteso, si legge: ‹‹Devo dirle, ora, quanto le sia grato, per tutto quello che ha fatto per me? Caro Petrucci, è difficile esprimerle questi sentimenti, senza falsarli. Ed io, creda, mi sento come chi ha imparato a conoscere un uomo sulle sue opere, sui suoi gesti, sulle sue parole. Perché in lei, Petrucci, tutto è bontà, e persuasione alla bontà. Dai libri alla vita, c’è questa soluzione di bontà, di dolce e trepida umanità, che non vuol finire. Non dico per me solo, che ho avuto bisogno di lei, in un certo momento; ma per il costume che lei imprime alle sue amicizie, per la sicurezza morale che sprigiona dalle sue parole e dal suo lavoro››.

       Un altro corrispondente di Alfredo Petrucci è Pasquale Soccio, di San Marco in Lamis, docente e poi preside del liceo classico Bonghi di Lucera. I documenti di Soccio conservati nel fondo della Biblioteca Provinciale di Foggia sono 21 e vanno dal 1934 al 1968. Si tratta per la maggior parte di lettere, 15, alle quali bisogna aggiungere 5 cartoline e un biglietto da visita. Dopo la laurea a Roma nel 1938 e il ritorno definitivo, l’anno dopo, nella sua terra, la corrispondenza con Petrucci si interrompe. In Incontri Memorabili, nel paragrafo che dedica a Petrucci, Soccio così scrive: “Quando poi presi servizio al liceo Bonghi di Lucera, egli avvertì la mia assenza e si desolava con profonda tristezza quando venivo meno a una periodica corrispondenza. Conservo ancora sue lettere di sollecitazione e di rimprovero per il mio silenzio: era un vuoto che non potevo più colmare per via del mio lavoro di docente e poi di preside. Lui ne fece  “quasi una malattia”; io avvertivo la grave nostalgia di quelle intime conversazioni culturali e di un affetto espresso dalla presenza”.

       In realtà, come ben nota il Giuliani, “a Lucera Soccio trova la sua dimensione più consona e gratificante, appagando un naturale bisogno di affermazione di sé; di conseguenza, si distacca da quanto gli ricorda il periodo in cui non era ancora il preside del Bonghi”. In seguito, però, Soccio scriverà ancora a Petrucci. Il 5 dicembre del 1964 egli scrive una lettera molto affettuosa a Petrucci, cui fa anche una richiesta. Questo il testo: “Mi viene un’idea, anzi un’antica ambizione, sempre segretamente carezzata. Ho un libro da dare alle stampe per lo stesso editore: Gargano Segreto, che Lei forse conoscerà per averlo io presentato al concorso-premio Gargano. Non se ne fece nulla, allora, nonostante il lusinghiero giudizio Suo e del relatore Raffaello Biordi. Sono cose d’interpretazione del nostro Gargano, partendo da un punto di vista psicologico: il nostro paesaggio, indimenticabile, come stato d’animo costante della vita mia e dei garganici tutti. Esulterei di gioia, ecco, se Lei acconsentisse fornirmi di disegni Suoi garganici (ne ricordo di bellissimi al tempo del Corriere della Sera) e certamente il mio libro acquisterebbe pregio. Meglio a voce Le dirà il mio professore Trastulli. Se non potesse, non me ne voglia per la pretesa di questa richiesta: è solo un desiderio, appunto, di associare il nome di due garganici che, chi più, come Lei, chi molto meno, come me, hanno fatto qualcosa per questa terra d’origine che ci portiamo nel cuore”.

        Il seguito è noto. E nella quarta e ultima edizione di Gargano segreto, del 1999, Soccio scriverà così in apertura: “All’eletto e compianto amico Alfredo Petrucci, cui mi legavano saldi e fraterni vincoli d’affetto, e come me ancorato a questa montagna da “sentimenti di struggente e straziante nostalgia per la perduta libertà” col  definitivo esilio dal Gargano, essendosi già in vita “costituito prigioniero di una grande biblioteca” e morendovi, come per autodecisione nel giugno del 1969, la mia tenace e durevole riconoscenza per avere, a suo tempo, consentito con slancio a dar lume a queste pagine con suoi mirabili disegni riguardanti la comune terra d’origine”.

      Oltre che sul carteggio con numerosi esponenti della cultura contemporanea, la monografia di Giuliani, il cui Leitmotiv è il legame di Petrucci con la sua terra d’origine, si sofferma anche su Il Gargano, lo scritto con cui Petrucci saluta l’inaugurazione della ferrovia del Gargano nel 1931, e sulla produzione in prosa e in versi del Nostro.

       Così scrive, a proposito de Il Gargano Giuliani: “Il Gargano lungi dal voler gareggiare con le guide geografiche, ambisce a rappresentare la complessità e insieme l’unicità di un macrocosmo a lui carissimo, descritto con precisione ed acutezza, ma anche con una penna aperta a cogliere le tante suggestioni dell’ambiente e della storia (...) Si intuisce perfettamente la personalità dell’autore, che del resto apre lo scritto con una sua poesia, A la montagna, tratta dalla recente silloge La radice e la fronda, del 1930 (‹‹Montagna madre, viscere da cui/mi distaccai con spasimo, se penso/a le tue selve e mi riguardo intorno,/penso che in te perennemente io fui››, p. 9). È un sonetto da lui particolarmente amato, e perciò proposto a più riprese, in cui rimarca, con accenti panici e voli cronologici, la forza del suo legame con la propria terra. L’opera è corredata di numerose fotografie, relative alle più importanti località dello Sperone, che hanno un notevole risalto nell’economia del lavoro. A queste si affiancano anche le riproduzioni di alcune opere dello stesso Petrucci, come le acqueforti Monte Delio e Il Castello dei Giganti, e di alcuni pastelli di Luigi Schingo, come Lago di Lesina, Le Isole Tremiti e La rupe di Peschici”.

 

      Per quanto attiene, invece, alla produzione novellistica del Nostro, mi soffermo qui solo su Romanzo di una primavera, silloge di 24 composizioni il cui comune denominatore è costituito dalla rievocazione della giovinezza trascorsa nel paese natale. In apertura, in uno scritto intitolato Quasi una prefazione, Petrucci rievoca così gli anni lontani: “C’era, nel romanzo della mia primavera, una terrazza, la terrazza della casa ove nacqui e in cui non mi sarà dato invece di chiudere gli occhi. Forse non spingerò nemmeno più quel portone, non salirò quelle scale; ma la terrazza mi segue e mi seguirà dappertutto. Anche adesso, ecco, per vederla, non ho che da attraversare con la mente una gran sala e scendere uno scalino di pietra. Nessun ostacolo si frappone al mio cammino (p. 7)”.

       Particolarmente belle e riuscite sono le novelle Esperienza antelucana e Credo, con cui la silloge si conclude. In Esperienza antelucana  “il padre del narratore esce di casa ogni giorno prima dell’alba, e il figlio, vinto dalla curiosità, decide una volta di alzarsi per osservare che aspetto avessero le cose: «Tirai il paletto e spalancai, voltandomi rapidamente indietro, per vedere con qual passo la notte scappasse via. Invece mi accorsi che la notte non aveva fretta alcuna; le ombre facevano uno sforzo per staccarsi dagli oggetti, s’incanalavano adagio adagio nel corridoio e andavano a far mucchio in sala» (p. 56). Il trapasso viene seguito cogliendo le sfumature, le gradazioni, gli aspetti inconsueti e ingannevoli. L’azzurro cede finalmente il passo al giallo e «il quadro, di monocromo che era, andava arricchendosi di tutte le sue tinte: merletti bianchi e gialli incominciavano ad apparire dietro i vetri delle finestre, le terrazze mettevano in mostra i fiori, le donne si facevano sui marciapiedi ad esporre graticci di fichi secchi e piatti di conserva di pomidoro» (p. 57). Le descrizioni si distendono a lungo, ma con naturalezza, senza tradire alcun artificio narrativo. Il finale, poi, riporta la novella nella consueta cornice fanciullesca, mostrando il protagonista addormentato sui libri, che viene destato e rimproverato dalla madre, poiché è ora di andare a scuola”.

       La novella Il Credo, invece, è l’ultima della silloge. “È il toccante ricordo dell’ultima parte della vita di Gerolamina De Grazia, l’amata genitrice rodiese, colpita da un «male subdolo e cattivo» (p. 188) e timorosa che gli studi possano aver allontanato l’amato figliolo dalla fede in Dio. Le preoccupazioni espresse in precedenza assumono toni angosciosi nella donna, che vuole essere tranquillizzata, prima di spegnersi, e ripete più volte la fatidica domanda. Quando il narratore trae dalla memoria la preghiera che la madre gli aveva insegnato da piccolo, la donna si mostra vivamente soddisfatta, come se non le importasse di altro. Nella scena finale, una luce celestiale solleva l’animo dal pensiero della morte a quello della consolazione di Dio («Il vento era cessato di nuovo, ma la casa, ripiombata nel silenzio, continuava a muoversi. Volta la prua nel cielo, io sentii che navigava fra le stelle», p. 190). Non a caso questa composizione è posta a conclusione del libro. Il romanzo della giovinezza è finito e ad esso lo scrittore guarderà con la dolcezza, la tenerezza e la malinconia che si provano di fronte agli anni verdi, ma anche con la forza di chi sa affrontare la vita, accettandola in sé e nella sua dimensione soprannaturale”.

       Quanto alla produzione poetica del Nostro, Giuliani così si esprime: “Un esame dei versi di Petrucci finisce per concentrarsi soprattutto su tre raccolte, La radice e la fronda, Esitazione della sera e Dietro l’opaca siepe, che mostrano, sia pure con i necessari cambiamenti, visto l’ampio arco cronolgico in cui si distendono, la continuazione di un discorso sostanzialmente unitario. Sono, in altri termini, i tre capitoli di una continua, sincera ed appassionata interrogazione che Petrucci dedica alla propria vita, inserita nel più ampio quadro di una realtà nella quale le piccole gioie quotidiane si affiancano al dolore e all’amarezza, ma in cui non viene meno il senso dell’esistenza, con i suoi tradizionali riferimenti religiosi ed etici. La poesia è una consolazione dell’anima, la voce dello spirito, che nell’uomo non può tacere, una luce proiettata sul proprio destino e sulla propria comunione con il creato. Nei versi trovano spazio, di volta in volta, le speranze e i rimpianti personali, le gioie e le ansie familiari, le visioni delle albe e dei tramonti, gli spettacoli di una natura varia e coinvolgente, che offre sempre delle sorprese all’osservatore attento e capace di farsi piccino. In quest’ampio ventaglio, il tema più ricorrente e sentito, ancora una volta, è rappresentato dal legame con la sua terra d’origine. Il filo della memoria porta Petrucci indietro nel tempo, al Gargano della propria giovinezza, dove ha trascorso dei momenti indimenticabili, dove ci sono ancora luoghi e spettacoli che il poeta avverte il bisogno di rievocare, anche con precisione, ma sempre con l’occhio della memoria e del sogno. Come nelle opere in prosa, insomma, il rinvio alle Sperone è di prassi, tra dolcezza e rimpianto, amore e negazione del ritorno fisico. Tutto è iniziato lì e non si può prescindere da questo luogo, che esiste realmente, ma appartiene prima ancora all’anima di Petrucci, come i critici hanno concordemente sottolineato. La poesia del Sannicandrese, obbedendo ad una necessità di dialogo, è in generale chiara, comunicativa, ma non sciatta. Talvolta la vena diventa in effetti troppo facile o, al contrario, tradisce i legami con i modelli letterari, dal Pascoli del fanciullino al d’Annunzio della parola ricercata, fino a certe cadenze ermetiche in voga nel Novecento; ma quando la semplicità si unisce alla grazia di certe visioni, alla capacità evocativa di alcuni momenti, alla suggestione di certi pregnanti spettacoli naturalistici, Petrucci raggiunge risultati notevoli, che non possono passare inosservati. Oltre a ciò, il Nostro ha l’orecchio scaltrito e maneggia con abilità, pur se talvolta con qualche compiacimento di troppo, l’armamentario metrico”.

        Salutiamo tutti con grande interesse il libro di Francesco Giuliani dedicato ad Alfredo Petrucci. E se è vero, come è vero, e come scrisse l’illustre Sannicandrese, che “vive o muore soltanto ciò che è vivo o morto in noi, e il rimanente non conta”, anche grazie a questo libro, Alfredo Petrucci vive ancora. 

VINCENZO CIVITAVECCHIA

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