UNA SCUOLA COME METAFORA

SAN SEVERO: I CENT’ANNI DEL “DE AMICIS”

 

 

        

     Una scuola come metafora: non sapremmo immaginarci il De Amicis in un altro modo.

     Nei primi anni del Novecento chi arrivava a San Severo con il treno si trovava di fronte ad una stazione ancora in parte separata dal resto della città. Le fotografie ci mostrano spazi vuoti e alberelli, con i campanili dritti e imponenti sullo sfondo. Ma gli spazi erano liberi anche altrove e sui giornali si parlava di una pista per il ciclismo ricavata sul piazzale Luigione, nei pressi della villa Comunale. Siamo nel 1907 e di lì a qualche anno proprio in quel posto inizierà la costruzione dell’Edificio per antonomasia, quello che non aveva bisogno di ulteriori specificazioni. In città c’era molta ignoranza, ma la natalità era alta e servivano degli spazi da affiancare all’ex monastero delle Benedettine e ai locali di fortuna.

     La costruzione, interrotta nel periodo della prima guerra mondiale, fu ripresa e giunse a conclusione nel 1923, con la solenne inaugurazione del 29 aprile. Il principe Umberto, che non immaginava che sarebbe diventato l’ultimo regnante della sua dinastia, e per giunta dopo la brevissima parentesi del maggio 1946, giunge di buon mattino in città, su di un treno. Le autorità sono tante, sindaci, onorevoli, notabili, ma l’attenzione della gente è solo per lui, il principe, che viene a visitare la gente di Capitanata. L’entusiasmo dei sanseveresi è incontenibile e il nome di Umberto viene scandito a più riprese.

     La cerimonia si svolge come previsto, nel migliore dei modi, poi il figlio di Vittorio Emanuele III sale in automobile e lascia la città.

     Sono passati ormai cento anni, ma quella presenza non è mai stata dimenticata. Quando eravamo ragazzi, trovavamo sempre qualcuno che ci raccontava di aver visto il principe o di averne sentito parlare da qualcuno con più anni di lui. La memoria si trasformava quasi in un evento mitico, qualcosa di straordinario, di appena credibile. Un principe era sempre un principe, e per chi era abituato a sentirsi periferico e bistrattato, era un segno di considerazione, un’azione buona da non dimenticare.

     Poi, con il tempo questa visita si è legata soprattutto alle immagini di quel giorno del 1923, pubblicate su libri e giornali. Non tutte sono nitide, in verità, ma il principe si vede benissimo mentre cammina accanto al sindaco e spicca in mezzo al corteo delle autorità. Ma la sua maestà rifulge meglio quando si affaccia al balcone, compiacendosi dei saluti augurali della gente.

     Nessuna visita lascerà un ricordo più indelebile, e neanche la nascita della Repubblica farà dimenticare gli eventi di quella mattina di maggio del 1923. Il ringraziamento restava.

  

San Severo, anni Venti

 

     Le 28 aule, le due scalinate e la palestra coperta appena inaugurate non risolveranno i problemi dell’edilizia scolastica della città e le cronache degli anni successivi porranno in evidenza la necessità di provvedere al completamento del nuovo edificio, che infatti aveva solo un piano sopraelevato. Le prime volte che vedemmo le foto degli anni Venti ci sembrò quasi un’illusione ottica, ma non era così: il secondo piano arriverà dopo, poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale.

     Il Principe di Piemonte diventò ancora più imponente e indispensabile. In un’aula si stipavano 50 alunni, se non anche di più, tutti agli ordini di maestri dal volto severo, che si facevano rispettare e godevano della stima delle famiglie, ma anche così gli amministratori cittadini erano alla perenne ricerca di spazi. Non si può rinunciare all’istruzione elementare, e questo lo sapevano anche i contadini più riottosi, quelli meno disposti a privarsi di due braccia valide. Anche loro, giocoforza, erano costretti ad attendere la fine delle scuole elementari per portare con sé i ragazzi in campagna o, nella migliore delle ipotesi, per rivolgere la fatidica domanda: vuoi andare a lavorare o vuoi continuare gli studi?

     In tutti i casi, l’Edificio svolgeva il compito di chioccia, schiudendo le porte della giovinezza e dell’amicizia vera, quella che dura per tutta la vita e che continua anche quando si è lontani. Tutto è cominciato in una di quelle aule, con quelle volte altissime e le finestre che nella memoria sembravano ancora più imponenti.

     Le foto del Ventennio mostrano il Principe di Savoia e il Parco della Rimembranza, e per i posteri è facile immaginare i cortei, le sfilate, i canti, le commemorazioni, i richiami allo sforzo della Patria per coronare i confini naturali. La prima guerra era ancora vicina e la memoria grondava sangue e dolore. Dal quattro novembre si passava alle date del nuovo regime, ma la Storia procedeva velocemente, segnando una nuova cesura.

     Nel 1946 Umberto II di Savoia prende mestamente la strada dell’esilio, dopo l’esito del referendum istituzionale, e nello stesso anno il sindaco Emilio Amoroso decide di dare un nuovo nome all’Edificio. Amoroso era un marxista di stretta osservanza, ma era anche un letterato, con una passione per la poesia. Gli venne in mente, o qualcuno gli ricordò, che cento anni prima, nel 1846, era nato Edmondo De Amicis, e propose di intitolargli la scuola. L’idea incontra la generale approvazione, come riportano le cronache.

     Nasce così la scuola elementare Edmondo De Amicis. Era un omaggio all’autore del Cuore, lo scrittore che aveva contribuito con il suo scritto a ‘fare l’Italia’ o, meglio, ad avvicinare un po’ di più gli italiani del Nord e del Sud. In realtà, De Amicis è anche altro, come probabilmente Amoroso sapeva, e in alcune opere l’idillio è duramente negato dalla concretezza della realtà, che alimenta rivolte e brucia speranze. Ma il Cuore era ancora un successo travolgente, che nel 1946 non era stato ancora messo in discussione dalle critiche di chi, anni dopo, porterà in primo piano l’impostazione classista dell’opera e tesserà l’elogio di Franti.

     Il vento dell’ideologia soffierà su De Amicis, offuscandone la memoria, trascurando il suo capolavoro per opere alla moda di chi credeva di sapere tutto e non vedeva la violenza e l’oppressione a due passi da lui; ma la scuola continuerà ad essere intitolata, doverosamente, a De Amicis, con il suo cognome che molti continuano a storpiare, rendendolo sdrucciolo.

     Nel dopoguerra nasceranno in città molti altri edifici, da adibire a scuole di ogni ordine e grado. Si trattava di costruzioni moderne, più leggere e luminose, ma molte di queste hanno ben presto rivelato i loro difetti, l’incuria che si è accompagnata allo sperpero e alla spartizione di fondi pubblici. Anche noi, come tanti altri studenti del passato, ne sappiamo qualcosa. Il De Amicis, però, è ancora al suo posto e nemmeno i terremoti hanno sancito la sua fine. Certo, negli anni sono stati fatti dei lavori ed altri appaiono indispensabili a breve termine, ma nel complesso l’edificio porta benissimo il suo secolo di vita, confermandosi una presenza importante nella nostra città.

     Ecco, dunque, il valore di metafora di una Scuola che non è solo un edificio di mattoni, ma anche il simbolo di un’istituzione che purtroppo in Italia versa in pessime condizioni. La scuola come centro di formazione, di educazione, di orientamento ha bisogno di mille correttivi concreti, di reali cambiamenti, che possano rendere finalmente l’Italia una nazione che guarda al futuro, forte della sua illustre e antica tradizione.

     Chi cammina per le vie di San Severo riesce a vedere facilmente la struttura del De Amicis. Chi percorre via Teresa Masselli la scorge in fondo, solida, e se ha la vista buona riesce persino a vedere le lancette dell’orologio, con il quadrante illuminato nelle ore serali. Se percorre via D’Alfonso, poi, la vede comparire alla fine delle traverse. L’effetto è ancora più vistoso se si guarda San Severo dall’alto. Dopo un poco l’occhio viene catturato da un blocco bianco, che si distende per l’intero isolato, maestoso, con il suo gioco di finestre e di elementi architettonici.

     Così dovrebbe essere la scuola: un punto di riferimento ineludibile, una presenza costante, un luogo dove crescere e migliorare. Lunga vita al De Amicis.

 

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