POESIA IN VERNACOLO GARGANICO
"LA CRUEDDA" DI VINCENZO LUCIANI
Un libro coinvolgente e che si lascia leggere tutto d’un fiato, quello dato alle
stampe da Vincenzo Luciani per i tipi della Cofine di Roma, intitolato “La
cruedda” (pp. 64, euro 12).
Luciani, classe 1946, è un garganico di Ischitella che vive da tempo a Roma, ma
nel promontorio nativo continua a svolgere una proficua attività di promozione
del vernacolo. Ha pubblicato, tra l’altro, degli studi critici e alcune sillogi
poetiche, sia in lingua che nel dialetto della sua Ischitella, frutto di una
lunga fase di decantazione e di revisione, come lui stesso tiene ad evidenziare
nella notevole intervista rilasciata ad Anna Maria Farabbi, posta a conclusione
del volume di cui ci accingiamo a parlare.
“Poiché è mia buona abitudine – scrive Luciani – pubblicare testi poetici
non prima che siano passati dieci anni, posso anticipare che è a buon punto la
mia prossima raccolta di testi in dialetto”. Così dichiarava nel gennaio del
2012, e la silloge in questione è proprio quella che abbiamo sotto gli occhi.
Per una volta, ci sembra il caso di cominciare dalla fine, appunto da questa
intervista, nella quale si ritrovano molti dati preziosi per inquadrare l’uomo e
il poeta Luciani, con la sua coriacea volontà di scrittore e di operatore
culturale, con la sua capacità di adattare lo strumento linguistico al
contenuto, senza note stonate.
Non è difficile, d’altra parte, collegare Luciani ad un mondo garganico che ha
trovato delle pregevoli espressioni in scrittori come Alfredo Petrucci, anche
lui autore di versi nel vernacolo della sua San Nicandro, apparsi postumi, e in
Michele Vocino, acuto e prezioso intellettuale dalla penna elegante e forbita,
sulla scia del suo d’Annunzio. Quasi scontati sono gli altri nomi che si possono
fare, più recenti, a partire da quelli di Cristanziano Serricchio e Joseph
Tusiani, lo zio d’America al quale Luciani dedica una bella e sentita lirica.
Si tratta, ovviamente, di una tradizione nella quale il Nostro, anche lui
garganico di stanza a Roma, si inserisce con tutta la sua originale personalità.
“La
cruedda”, spiega il poeta, è un cesto caratteristico di Ischitella, che si
prestava a vari usi, ma è anche, se non soprattutto, un simbolo del suo bisogno
di un saldo ancoraggio, della necessità di rimanere legato alle sue radici
umane, che sono, poi, quelle dei primi anni, trascorsi sullo Sperone. Nella
cesta c’è di tutto e senza di essa non si può comprendere nulla della vita,
intesa nelle sue tre dimensioni. Tutto parte e finisce dallo stesso luogo e
dalle stesse esperienze. Questa zavorra, insomma, è preziosissima per affrontare
i gorghi dell’esistenza.
Lo scavo nella memoria porta con sé come necessaria conseguenza l’adozione del
dialetto ischitellano, la lingua materna. Era una scelta per molti versi
obbligata, questa di Luciani, che aveva già dato alle stampe nel 2001 la silloge
“Frutte cirve e ammature”, ossia frutti acerbi e maturi, e che rispetto a questa
fa ora segnare un netto miglioramento poetico, colto autorevolmente da un altro
illustre ischitellano, Rino Caputo, che nella capitale insegna letteratura
italiana ed è preside di facoltà.
Fatti dei rapidi conti, abbiamo una cinquantina di liriche scelte tra quelle
composte in undici anni. Il labor limae si avverte immediatamente, leggendo
queste poesie per lo più di breve respiro, la cui semplicità è frutto non di una
facilità di vena, ma, al contrario, di un continuo ritorno sulla parola, di
un’opera di rifinitura che produce dei versi dai suoni non di rado scabri,
aspri, ma sempre nel complesso armoniosi. E’ una musicalità caratteristica, che
trova spazio in strofe di diversa lunghezza e in versi che spaziano da misure
lunghe, come quella dell’endecasillabo, alla brevità di ternari e quaternari.
Il suo vernacolo è quello di un mondo contadino abituato agli stenti, alla
povertà, alle incognite del futuro, che quasi teme di apparire troppo dolce e
debole, proprio come il padre del poeta, che accarezzava il figlio di notte,
convinto che quello fosse il miglior modo di educare (“Sckitte allascurde pateme
u faceve/ spijanne che durmeve./ Nziamaje me n’addunasse!”).
Il libro è diviso in 3 parti, “A Grotte u Tasse”, “I portahalle” e “A Ville”,
tutte legate a quel ritorno alle radici che si compie senza forzate
idealizzazioni. La realtà garganica appare nel complesso con i suoi colori
originali, ricostruita attraverso ricordi, episodi, folgorazioni. Di qui momenti
di dolcezza, come in “A fanoje” (“Na vote ce cantave tutt’a notte/ […]
Ddurmèvene i criature/ mpette alli mamme lore”) e “A cruedda”, che termina con
la gioia del bimbo che rivede la madre. Sull’altro lato della medaglia,
ovviamente, ci sono i momenti del dolore e della sofferenza.
Il poeta trova nella realtà garganica i segni della serietà e della durezza
dell’esistenza, contrapposti alla negatività dei giovani d’oggi, allo
sbandamento di una società moderna priva di riferimenti validi, ma in altre
occasioni il passato mostra usi e consuetudini non più validi e auspicabili, e
un esempio lo abbiamo già ricordato parlando dei metodi educativi.
L’io poetante si muove nel tempo, confessando i suoi sentimenti, i suoi
pensieri, i suoi desideri, offrendo al lettore dei momenti di intensa
ispirazione, che restano impressi, da “Trèmete” a “Parole saprite”, da “Cume a
stratije i jurne” a “Giannuzze u Sarte”.
Luciani chiude con un arrivederci alla maniera dei cantastorie, “Nuje pure, nì,/
vedìmece quanne jè crà”. Arrivederci, dunque, nel nome della valida poesia;
magari non tra undici anni!