Ci voleva Francesco Giuliani ad illuminare la notte letteraria della nostra
provincia con questo saggio sul Carducci, ci voleva lui per riportare alla
ribalta e all’attenzione un gigante della letteratura italiana passato troppo
spesso, anche nelle scuole, nelle sale remote della dimenticanza.
Un’opera di pregio per le edizioni del Rosone, un’opera ben confezionata dallo stesso editore, e con un titolo riuscito: “In cerca di Melisenda”. Giuliani oltre ai contenuti approfonditi sino al tessuto più intimo nelle opere letterarie degli autori di cui si occupa, sa badare bene, con la scaltrezza del critico esperto e con una creatività che lo contraddistingue, anche agli aspetti esteriori dei suoi studi: i titoli accattivanti, le dediche sempre indovinate, come in questo caso: A tutti quelli che inseguono Melisenda: partire e già una vittoria…. È una vittoria per te, professor Giuliani, questo ultimo lavoro, lavoro di chi sa ben monitorare il proprio territorio, andando oltre (ricordiamo i saggi di Francesco Giuliani sui veristi e sui futuristi ad esempio) i confini abituali nel tempo e nello spazio della nostra regione.
Con “In cerca di Melisenda” Giuliani va ad indagare
l’ultimo Carducci, quello di “Rime e ritmi”, la sua ultima raccolta. Sovente
tacciato di troppo forte vibrazione retorica, si dimentica che Carducci rivelò
tendenze antiromantiche sin dagli anni giovanili, accompagnandole in un intenso
contatto con i classici corroborato però, almeno rispetto ai suoi tempi, da un
forte e moderno impegno filologico. Ma in “In cerca di Melisenda” la poesia
carducciana, generalmente connotata da una robusta vibrazione classicheggiante,
comincia a piegarsi ad una sensibilità che prelude all’ormai prossimo
Decadentismo. Ed è qui che mette l’accento Francesco Giuliani, sempre
lucidissimo e raffinato nella sua prosa: “…è
un poeta che esce allo scoperto, molto più di dieci anni prima, quando aveva
composto la “rima Jaufré Rudel”, seguendo nel suo viaggio il francese, che cerca
l’amore con tutte le sue forze, incurante di ogni pericolo. Nel 1988 la
“malinconia” batte alla porta del cuore e nel silenzio dell’“animo chiuso”
Giosuè riesce a ripercorrere l’ultima giornata del signore di Blaje, fino al
bacio finale, che segna il momento in cui il sogno si realizza e insieme
svanisce, come è necessario che sia, visto che nelle maglie della vita non c’è
spazio per i voli arditi, costretti come sono a fare i conti, immancabilmente,
con la prosa dei giorni…”.
La poesia di Carducci fu durante gli anni sessanta e settanta (ovviamente
nell’Ottocento) la voce dell’Italia rivoluzionaria, insofferente al trono e
all’altare, solidale col moto europeo contro gli imperi di Francia, d’Austria,
di Russia, propugnante la razionalità della scienza, l’universalità del diritto,
l’emancipazione degli oppressi e degli sfruttati. In seguito la sua poesia si
sviluppò appunto nel valore storico di una testimonianza intellettuale ed
artistica, legata non solo al genio dell’interprete ma anche e soprattutto alla
forza prorompente delle idee di cui egli si faceva in quel momento portavoce.
Così si è espressa in genere la critica militante su Giosuè Carducci e il merito
di Giuliani, ancora una volta, è la voglia insopprimibile di cercare ancora
dell’altro, qualcosa di più in un autore.
I versi carducciani del tramonto, quelli in “Rime e ritmi”, sono per Giuliani,
nella loro splendida delicatezza e malinconia, tra i più belli scritti dal Vate,
e forse ha ragione lui. Un frammento, nel capitolo III, “L’ultima giornata del
Trovatore”: “…L’antica leggenda è
ancor oggi ricchissima di significati e risonanze, a tutti i livelli, a partire
da quello più alto di chi vi scorge l’insopprimibile desiderio di trovare uno
scopo nella vita, religioso o laico che sia, sulle orme della sfuggente
Melisenda, una giustificazione che dia ragione dell’angoscia quotidiana, anche a
costo di rinunce e cambiamenti. È l’ideale per cui è bello morire, per cui vale
la pena di sacrificarsi, anche se non si arriverà a destinazione. Scendendo in
basso, poi, in un’ideale scala, arriviamo fino all’attuazione dell’“amore di
lontano”, sempre più diffuso e oggetto di severi studi sociologici, ad opera dei
patiti di internet e dei social network, che cercano un volto nascosto dietro
l’anonimato di un pseudonimo e di frasi che compaiono sullo schermo di un
computer. Anche così la fantasia umana si pone sulle tracce di qualcosa che non
ha e di cui avverte la mancanza, volando lontano con la mente, e talvolta
addirittura anche con il corpo, magari al di là dell’oceano…”.
Ancora colpisce la capacità di elaborazione del saggista Francesco Giuliani, i
suoi elegantissimi voli letterari, quasi come, alla fine di questo ultimo brano,
volesse augurare ai giovani di oggi, nelle grandi difficoltà sociali del nostro
tempo, di trovare finalmente, e per sempre, la loro Melisenda.
ENRICO FRACCACRETA
In cerca di
Melisenda. Letture dal Carducci di “Rime e ritmi”
Foggia -
Edizioni del Rosone
Pagg. 334 €
22,00
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CARDUCCI "ALPINO" ALLA RICERCA DI MELISENDA
Esiste tutta una letteratura che è rimasta incantata da vette alpine e
appenniniche, opportunamente virate sul sublime, da Mann a Rigoni Stern, da
Tasso a Buzzati. È una letteratura che respira iperurani platonici e cieli
concimati di altezze stupefacenti, addossati ad anime stanche di realtà
orizzontali. Non c’è epoca che non ne risulti davvero scarsa, anzi una siffatta
disposizione attraversa trasversalmente grandi peccatori e candide stoffe di
eremiti.
Nacquero delle notevoli gemme: Mezzogiorno alpino, L’ostessa di Gaby, In riva al Lys, Sant’Abbondio, Elegia del monte Spluga. Dall’analisi che ne fa il critico Francesco Giuliani con lo scrupolo filologico che lo contraddistingue, analisi consegnata al volume In cerca di Melisenda, si deducono inedite acquisizioni su quel periodo particolare della vita di Carducci, scampato nel 1885 ad una grave malattia che non atterrò certo la sua tempra leonina.
Di fronte alla natura diversa della montagna, favorita in prima
persona nelle sue escursioni dalla regina Margherita in veste di totale
avanguardista, il poeta resta felicemente illuminato volgendo più spesso lo
sguardo (diventato più romantico, più ‘leopardiano’) ad intense introspezioni e
prospezioni sentimentali, a più sciolti flussi linguistici.
È un Carducci felicemente in riposo, dopo impegnativi anni da docente nella sua Bologna e di molteplici iniziative in cui il suo nome sempre più altisonante viene coinvolto. Viaggia e soggiorna con la Vivanti, scrive al fido Severino Ferrari dettagliate relazioni epistolari dei suoi spostamenti, dei suoi tour de force in veste di trekker ante litteram, levatacce e spartane colazioni comprese. “Nitido il cielo come in adamante / d’un lume del di là trasfuso fosse, / scintillan le nevate alpi in sembiante / d’anime umane da l’amor percosse”. Si aprono, come questa, altre finestre di un decantato lirismo, ‘squarci di dorata fantasia’ (come li chiama Giuliani), miracolose sospensioni esistenziali. Finché giunge l’ora dell’idillio più alto, l’elegia elevata al Monte Spluga, dove Carducci si raccoglie come in un ultimo approdo a garantirsi serenamente la più totale delle disillusioni, la meditazione più alta su un destino laico, certo, ma imparentato a religiosi richiami di assoluto.
La
sintesi ideale di tutto sarà quel Jaufrè Rudel, romanza che trattiene il mito di
Melisenda (da cui il titolo del libro) alla cui ricerca il poeta rimane
impegnato, avvinto all’ultimo sogno, all’ultima illusione, al di là dello spazio
e del tempo.
SERGIO D’AMARO